Covid hospital, anglicismo inquietante

Esempi di titoli: Coronavirus in Veneto, Zaia: “Apriamo un Covid-Hospital in ogni provincia”; Lazio, Covid Hospital diventano 5; L’Aquila: apre il Covid Hospital al G8; L’ospedale di Lugo diventa Covid Hospital; Primi malati nel Covid Hospital di Camerino

Mi chiedo quale sia la motivazione nella scelta dell’anglicismo Covid hospital per denominare gli ospedali italiani destinati alla cura di persone affette da COVID-19. Forse si ritiene che hospital sia una parola che comunica maggiore efficienza, competenza e modernità di ospedale, un tipo di convinzione diffusa tra chi ha una conoscenza solo superficiale dell’inglese?

Temo che chi ha privilegiato l’anglicismo non abbia considerato le potenziali connotazioni negative di hospital. Per chi non conosce l’inglese, come la maggior parte degli anziani, hospital sentito alla radio o in TV può infatti suonare simile a hospice, la struttura per il ricovero di malati terminali. Il possibile fraintendimento non è per nulla rassicurante se si appartiene a una categoria di persone che rischia la vita se contagiata.

Aggiornamento luglio 2020 – In molti ospedali italiani non ci sono più pazienti ricoverati per COVID-19 e la notizia viene data descrivendo gli ospedali come Covid free. Anche se x-free è una formula ormai frequente in italiano, bisognerebbe domandarsi se tutti effettivamente capiscano cosa significa covidfrì quando lo sentono senza vederlo in forma scritta.

Anglicismi nella comunicazione istituzionale

Chi si occupa di comunicazione istituzionale dovrebbe prestare più attenzione alle scelte terminologiche, considerando anche eventuali aspetti connotativi. Prima di optare per un anglicismo si dovrebbe inoltre verificare che venga compreso correttamente da tutti, come evidenziato nei criteri di condotta di Francesco Sabatini:

1 Sei veramente padrone del significato di quel termine? 2 Lo sai pronunciare correttamente? 3 Lo sai anche scrivere correttamente? 4 Sei sicuro che il tuo interlocutore lo comprende? Quando anche uno solo di questi requisiti non è rispettato, vuol dire che:  stai facendo una brutta figura oppure usi quel termine per pigrizia oppure disprezzi il tuo interlocutore  

In questo contesto Covid hospital è sicuramente un anglicismo superfluo: la scelta di preferirlo a ospedale [per] Covid-19 non è in alcun modo giustificabile.

Mi dà però lo spunto per illustrare il concetto di allotropia, la compresenza in una lingua di parole che hanno la stessa origine ma forma e significati diversi.

Ospedale, ospizio e hospice

Le parole ospedale, ospizio e hospice un tempo condividevano lo stesso significato di “alloggio o ricovero temporaneo per forestieri” e solo in seguito hanno acquisito le accezioni con cui li usiamo nel lessico contemporaneo.

Ospedale (e localmente ospitale e spedale) deriva dal latino hospitale, neutro sostantivato di hospitalis, “ospitale”. È una parola del lessico fondamentale: tutti i parlanti ne conoscono il significato di istituto destinato al ricovero e all’assistenza sanitaria di ammalati e feriti.  

Ospizio deriva dal latino hospitium, “ospitalità, alloggio”, da hospespĭtis, “ospite”. In origine indicava un edificio gestito da religiosi per l’accoglienza di forestieri e pellegrini, come l’Ospizio del Gran San Bernardo sull’omonimo passo alpino. È invece molto più recente il significato ora prevalente di ricovero per anziani che non possono più vivere da soli (o per persone prive di mezzi di sussistenza).

Hospice, dal latino hospitium attraverso il francese antico, è un anglicismo entrato nell’uso italiano negli anni ‘80 con il significato di struttura di ricovero e di assistenza per malati terminali, utilizzata insieme ai servizi ospedalieri in programmi di cure palliative. È un anglicismo noto e ormai insostituibile, facile da pronunciare (“òspis”) e che non si confonde con ospizio né nella forma grafica, grazie all’h iniziale, né nella pronuncia perché l’accento cade in posizioni diverse.

Ostello e hotel

Anche ostello e hotel hanno un’origine comune.

Ostello è entrato in italiano nel XIII secolo come francesismo da (h)ostel, a sua volta dal latino hospitale. In origine significava luogo d’abitazione, anche temporaneo, e quindi dimora ospitale, rifugio. L’accezione di albergo economico per giovani è molto più recente ed è la forma abbreviata di ostello della gioventù, calco dell’inglese youth hostel. Nell’inglese britannico hostel è anche un ricovero pubblico notturno per indigenti o una struttura con alloggi per particolari categorie di lavoratori, ad es. personale medico, operai ecc.

Hotel è in uso dal XIX secolo ed è un prestito dal francese hôtel, a sua volta dal francese antico (h)ostel, dal latino hospitale. È un internazionalismo usato in molte lingue europee con l’accezione condivisa di albergo di buona categoria, ma in francese ha anche altri significati che possono confondere i non francofoni: hôtel de ville ad esempio è il municipio (come aveva scoperto suo malgrado una turista inglese: UK tourist trapped in French hall). 

Ospite, oste e host

Ospite, dal latino hospes -ĭtis, da un più antico *hostipotis ‘signore dello straniero’, da hostis “straniero” e potis “signore, padrone”, è un esempio di enantiosemia, un tipo particolare di polisemia che si verifica quando una stessa parola ha due significati tra loro contrari: indica infatti sia chi ospita che chi è ospitato. 

Oste arriva dal francese antico (h)oste, anche questo dal latino da hospes -ĭtis. In origine significava ospite, accezione poi caduta in disuso a favore di quella a noi nota di padrone o gestore di un’osteria. 

Host è un anglicismo recente che ha la stessa origine nel francese antico hoste, come oste, ed è entrato in italiano attraverso due strade diverse. Nel secolo scorso è stato acquisito il  termine informatico con varie accezioni, tra cui quella di computer principale (host computer) che ospita risorse disponibili ad altri computer collegati. Più recentemente invece si è diffusa l’accezione che descrive il padrone di casa che attraverso il servizio Airbnb affitta stanze, appartamenti o altri alloggi per brevi periodi. Presumo sia una scelta dettata dalla necessità di distinguere tra chi ospita e chi viene ospitato usando singole parole. 

A partire dal 2014, il programma per i Superhost ha premiato oltre 400.000 host che danno il massimo per ogni ospite.

Le parole ospite, oste e host sono quindi allotropi (o doppioni), come ospizio e hospice e ostello e hotel.


Definizioni ed etimi dal Dizionario Devoto-Oli

6 commenti su “Covid hospital, anglicismo inquietante”

  1. Emidio:

    A proposito di anglicismi, da quando gli appelli si chiamano “call”? E perché l’articolo femminile?

    “Abbiamo bisogno di medici, speravo che tra le call che avevamo fatto in questi giorni tra pensionati e specializzandi ci fosse più risposta e invece non c’è stata.”

    https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/sanita/2020/03/19/coronavirus-ospedale-di-bergamo-abbiamo-disperato-bisogno-di-personale-_26f701f7-9e20-4ae2-840f-02d3eb6a2c1b.html

  2. Irina:

    Che confusione 😉
    Hospice finora non l’avevo mai sentito né letto da nessuna parte in italiano. In tedesco si dice Hospiz e non c’è nessun’altra parola con cui si potrebbe confonderlo.
    Casa di riposo non si usa più? Si dice solo ospizio o sono due cose diverse?

  3. Licia:

    @Emidio, ho notato anch’io questo uso insolito di call, ad es. lo scorso febbraio nel sito del MIUR Coronavirus, pubblicate due call per sostenere la didattica a distanza (“Sono disponibili da oggi, sul sito del Ministero dell’Istruzione, due call per tutte le realtà che vogliono sostenere le iniziative di didattica a distanza che si stanno attivando a seguito della chiusura delle scuole, in alcune zone d’Italia, per l’emergenza coronavirus”). Presumo che sia l’abbreviazione impropria di call to action, un’espressione molto usata nel marketing e su cui avevo chiesto chiarimenti al MIUR in un tweet, ma non si sono degnati di rispondere. Se invece si intende un generico call nel senso di appello o richiesta, come sembrerebbe dal tuo esempio, è palesemente un anglicismo superfluo (e l’incapacità di riconoscerlo è la conferma che l’abuso di anglicismi è inversamente proporzionale alle competenze linguistiche).

    @Irina è una bella cosa non avere mai sentito la parola hospice, che è tristissima: purtroppo la si impara in relazione a qualcuno per cui non c’è più nulla da fare. 
    Sulla parola ospizio, ha connotazioni spregiative e non viene più usata come nome di struttura per anziani (a meno che non si tratti di un nome “storico”): ci sono case di riposo, case protette, residenze per anziani e RSA (residenze sanitarie assistenziali), al centro dell’attenzione in questo periodo perché sono luoghi dove la COVID-19 sta facendo molte vittime. Nel parlato colloquiale però capita ancora di sentire frasi come “l’hanno messa all’ospizio”.

  4. John Dunn:

    Le collocazioni del tipo ‘sostantivo + sostantivo’ (Covid Hospital, stepchild adoption) sono molto amate da giornalisti e altri, magari per la loro utilità dal punto de visto della economia linguistica, ma non sono (ancora?) pienamente assimilata dalla lingua italiana. Perciò possono essere coniate solo quando includono una parola straniera (preferibilmente un anglismo). Ma questo è solo una spiegazione: non tocca a me dire se queste formazioni sono giustificate o meno.

    In questi esempi ‘call’ è usato a mio parere nel senso di appello; forse proviene del linguaggio universitario (call for papers, call for applications; qui call for retired dectors to return to work). Ma la traduzione letterale di ‘call’ sarà ‘chiamata’, e forse per questo motivo se usa l’articolo femminile.

  5. Fausto Mescolini:

    Concordo con John Dunn. Chi scrive, scrive “call” ma pensa a “chiamata” per cui usa il femminile. Però “chiamata” gli/le sembra insufficiente/inadatto/debole/poco autorevole o chissà che, per cui usa “call”, anche per i motivi che spiego qui sotto, che sono una mera opinione personale.

    Ai criteri di condotta del Sabatini aggiungerei che spesso i termini inglesi vengono adottati perché associati a un’idea di prestigio, correttezza ecc. che sembra profondamente radicata nella mentalità dell’italiano medio. L’uso della parola inglese, anche per dare una patina nuova a concetti non nuovi e facilmente esprimibili in italiano, è parallelamente legato, a mio avviso, alla scarsa autostima del suddetto italiano medio (che, temo spesso ignori quanto la cultura italiana sia studiata e ammirata all’estero). Tale scarsa autostima fa sentire desiderabile l’appartenenza a un “circolo esclusivo”, concessa per il solo uso del termine anglosassone.
    Il danno a breve termine è che, molte persone non capiscono di cosa si stia parlando. A lungo termine, se la parola o espressione inglese entra nell’uso comune, non ci si ricorda più come si esprimeva lo stesso concetto in italiano. Si perde così un pezzettino del nostro modo di pensare.

  6. Licia:

    @Fausto, grazie per il contributo. Non so se sia una questione di autostima (implica consapevolezza) o invece più semplicemente di scarse competenze linguistiche: sono sempre più convinta che l’abuso di anglicismi sia inversamente proporzionale all’effettiva conoscenza dell’inglese. Ne avevo avuto una conferma autorevolissima da Tullio De Mauro, con cui avevo avuto il piacere di discuterne qualche mese prima della sua scomparsa: andrebbero promosse conoscenze più approfondite e meno scolastiche sia dell’italiano che dell’inglese.

    Un altro dettaglio da tenere presente è che gli anglicismi abbondano nel lessico dei media, della politica, nell’”aziendalese” e in alcuni linguaggi giovanili, ma non sono altrettanto usati nelle conversazioni di tutti i giorni, a riprova che molti anglicismi fanno parte del nostro lessico “passivo” (ci abituiamo a sentirli e vederli nei media, e li riconosciamo facilmente) ma non di quello “attivo” che usiamo effettivamente nelle conversazioni di vita quotidiana: due esempi tipici sono living e pet.

    Qualche altra considerazione in Anglicismi, che passione!?

I commenti sono chiusi.