Nelle notizie sulla manovra di bilancio per il 2020, concordata il 15 ottobre 2019, è ricorrente l’anglicismo cashless, a quanto pare un concetto chiave per le strategie di governo. Si notano però alcune vistose incongruenze nella comunicazione.
Stando ai media, Conte ha annunciato che “nasce Italia Cashless”, il Documento programmatico di bilancio 2020 descrive invece un Piano per la rivoluzione Cashless e nel comunicato stampa del Consiglio dei Ministri si trova invece Piano Cashless:
Peché cashless?
Sembra che chi ci governa dia per scontato che il significato di cashless sia noto a tutti: non viene fornita nessuna definizione né sul sito del Governo né del Ministero dell’economia e delle finanze e i media non danno molte spiegazioni. Credo sia indicativo che neppure i dizionari di italiano più attenti ai forestierismi abbiano ancora registrato il lemma cashless.
In inglese l’aggettivo cashless descrive transazioni in cui non si usano contanti ma solo pagamenti elettronici. Nell’uso del governo italiano parrebbe che vada invece intesa la riduzione dell’uso dei contanti, consentiti fino a un tetto massimo variabile.
Mi sembra in ogni caso un anglicismo superfluo: anziché piano cashless si sarebbero potute usare alternative come piano pagamenti elettronici o piano pagamenti tracciabili, oppure anche piano limitazione contanti o qualsiasi altra soluzione trasparente e comprensibile anche per chi non conosce l’inglese.
Viene il sospetto che si tratti di inglesorum, una scelta dettata dal tentativo di mascherare un concetto che agli evasori è sicuramente sgradito.
Una prova che l’anglicismo è poco familiare è questo titolo:
È un tentativo maldestro di gioco di parole che ha senso solo se non si conosce bene l’inglese.
E il cashback?
Per chi non ha familiarità con la lingua, un ulteriore svantaggio dell’anglicismo cashless è la sua confondibilità con cashback, parola molto in voga nel recente “totomanovra” (settembre 2019) ma poco usata nelle notizie più recenti. C’è un riferimento nel Documento programmatico di bilancio 2020:
Nel lessico comune inglese cashback ha due significati:
1 una specie di “servizio bancomat” offerto da alcuni supermercati: si paga con carta di credito o di debito e si aggiunge all’importo della spesa la somma che si desidera avere in contanti (si può dire, ad esempio, I’d like £40 cashback);
2 un incentivo a comprare beni o servizi (ad es. un mutuo) con l’offerta di un rimborso che può essere immediato al momento del pagamento, oppure quando viene raggiunta una soglia di spesa.
L’accezione 2 può riguardare anche i programmi con carte fedeltà che consentono di accumulare punti poi trasformabili in sconti, quindi un concetto noto da tempo in Italia e descrivibile senza ricorrere ad anglicismi poco trasparenti.
Nella comunicazione del governo sono sicuramente preferibili alternative come l’anglolatinismo già radicato bonus (cfr. punto 4 del comunicato stampa riportato sopra), eventualmente anche con nomi informali come superbonus Befana.
Aggiornamento settembre 2020 – Nelle cronache di questi giorni (ma non nei comunicati governativi) è riemerso l’anglicismo cashback a cui si è aggiunto lo pseudoanglicismo supercashback (o super cashback), che stando ai media sarebbe una specie di concorso che premia un numero fisso di contribuenti che nel semestre di riferimento hanno effettuato il numero più alto di pagamenti digitali (si conteggia il numero di singole transazioni, indipendente dall’ammontare totale delle spese).
La fonte è un’intervista del 24 settembre a Giuseppe Conte:
Altri dettagli nel nuovo post Il cash di supercashback (con osservazioni sulle diverse accezioni di cash in inglese e in italiano)
Green New Deal
Un altro anglicismo ricorrente nel Documento programmatico di bilancio 2020 e che appare anche nel comunicato stampa è green new deal:
L’uso dell’articolo determinativo fa pensare che sia un concetto noto ma nei siti governativi manca invece qualsiasi definizione o spiegazione.
Non è chiaro se il riferimento sia a un progetto politico statunitense molto recente e molto osteggiato, volto a contrastare il cambiamento climatico e la diseguaglianza economica e associato in particolare dalla deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez, oppure a precedenti iniziative omonime in altri paesi di lingua inglese, che però non hanno mai avuto attuazione in legislazione specifica. Dettagli in Green New Deal (Wikipedia).
Se davvero il green new deal è il fulcro della strategia del governo per il rilancio dell’economia, come si legge nel documento programmatico, sarebbe stato opportuno evitare l’anglicismo superfluo e privilegiare invece un nome italiano comprensibile a tutti i cittadini.
Aggiornamento 2020 – Solo nei mesi successivi si è capito che green new deal fa riferimento al Green Deal europeo, una nuova strategia di crescita per l’Unione europea presentata dalla Commissione ai cittadini europei nel dicembre 2019.
Altri anglicismi della manovra
Da anni ormai nella comunicazione pubblica si preferisce chiamare le imposte con nomi inglesi del tipo xyz tax (o addirittura pseudoanglicismi come il recente colf tax). Anche nel documento programmatico se ne trovano: ci sono riferimenti alla cosiddetta flat tax e a una web tax (non è però chiaro se coincida con la digital tax citata dai media).
Fa eccezione, perché descritta in italiano nel documento, l’imposta sugli imballaggi di plastica che però la maggioranza dei media preferisce chiamare plastic tax o *plastics tax (cfr. inglese britannico plastic packaging tax). Aumenta così la confusione per i cittadini.
Solo nei media, per il momento, anche i riferimenti alla cosiddetta sugar tax, un’imposta sulle bevande ad alto contenuto di zucchero.
Intanto nei tweet della Ministra per le pari opportunità e la famiglia si nota lo pseudoanglicismo act, usato per la prima volta in Jobs Act, leitmotiv dei provvedimenti del governo Renzi e ora riapparso in Family Act. Ho provato a chiedere spiegazioni ma non ho ricevuto risposta.
Si è tornato inoltre a discutere di Ape social (anziché sociale), già analizzato in Ape social, un nome ridicolo.
In conclusione…
Immagino che nel documento programmatico ci siano anche altri anglicismi, qui mi sono limitata a raccogliere quelli ricorrenti nelle notizie dei media generalisti, rivolte a chiunque.
Dispiace vedere che, indipendentemente da chi sia al governo, si scelga di ricorrere ad anglicismi anche quando sono disponibili alternative italiane valide. Pigrizia, snobismo, volontà di rendere oscuri concetti altrimenti sgraditi o banale mancanza di rispetto per i cittadini che non conoscono l’inglese?
Vedi anche: Elenco di anglicismi istituzionali
Flavia:
“Pigrizia, snobismo, volontà di rendere oscuri concetti altrimenti sgraditi o banale mancanza di rispetto per i cittadini che non conoscono l’inglese?”
L’inglese sembra sconosciuto anche a loro; no, per me si tratta di fuffa: https://www.terminologiaetc.it/2014/03/05/significato-fuffa/
granmadue:
L’abuso di anglicismi e pseudoanglicismi dipende secondo me da un po’ tutti i motivi sopra elencati; credo inoltre che sia un evidente sintomo di provincialismo e di inferiorità (peraltro abbastanza in contraddizione col fatto che questa è un’epoca in cui in tanti si affannano a dichiararsi sovranisti).
Sarebbe bello se, prima o poi, il Presidente Mattarella, trovandosi sul tavolo il testo di una legge infarcito di tali termini, si rivolga al Parlamento chiedendo che venga riscritto in italiano, possibilmente comprensibile.
Comunque duole constatare come questa discutibile moda dilaghi anche in ambienti “colti”, che uno si aspetterebbe maggiormente dotati di anticorpi. Per esempio: come si chiama la Fiera nazionale dell’editoria indipendente che inizia domani a Genova? “Book Pride”. E l’altra manifestazione, dedicata sempre ai libri, in programma a Milano tra meno di un mese? “Bookcity”, ovvio.
Visto che a un certo punto le mode, in genere, passano, speriamo che succeda anche in questo caso.
Licia:
@Flavia avevo pensato anch’io di usare la parola fuffa ma poi avevo preferito non infierire ulteriormente! 😉
@granmadue in realtà raramente Mattarella deve firmare leggi che contengono l’itanglese tanto amato dai politici: il legislatore privilegia terminologia italiana e usa anglicismi solo quando strettamente necessario. Il fenomeno dell’abuso di anglicismi quindi è ancora più grave perché c’è una discrepanza tra la comunicazione pubblica e legislazione. Alcuni esempi: nessuno dei decreti legislativi che costituivano la riforma nota come Jobs Act conteneva act o job (dettagli nella seconda parte di Definizione ufficiale di Jobs Act); non c’era traccia di stepchild adoption nel disegno di legge che avrebbe dovuto regolamentarla (cfr. Anglicismi governativi: stepchild adoption); la locuzione revenge porn non appare nell’articolo 612-ter del codice penale che identifica il reato (dettagli in Revenge porn non vuol dire “pornovendetta”) e così via. La confusione per il cittadino che non sa l’inglese è quindi doppia: oltre alla beffa, il danno perché diventa più complesso reperire informazioni.
John Dunn:
Benché sia piuttosto d’accordo con questo post, vorrei fare due osservazioni:
1. piano cashless — due parole, cinque sillabi
piano pagamenti elettronici — tre parole, 12 sillabi
Il principio di economia linguistica è una cosa da non sottovalutare: è molto importante per la propaganda politica e per la giornalistica e a mio parere è il motivo per l’uso di tantissimi anglismi. Allo stesso tempo questo principio non vale (o non dovrebbe valere) per i documenti ufficiali (dove prevale il principio dell’esattezza), e questo, a mio avviso, sarà la spiegazione delle discrepanze tra diversi tipi di documenti.
2. Forse sarebbe utile distinguere tra espressioni che sono internazionalismi (green new deal, forse flat tax) e quelle coniate in italiano, specie quando quest’ultime hanno un senso diverso di quello della lingua d’origine.
E se posso, una terza: per me un Ape social sarà un gorilla con molti amici.
granmadue:
Grazie Licia per l’utile precisazione.