Ieri in un negozio milanese mi ha molto colpita un’interazione tra acquirente A e venditrice V, entrambe sui 45-50 anni. Non tornerò più in quel negozio, e il motivo è sintetizzato in un punto del manifesto provvisorio di Parole O_stili:
A era straniera ma si esprimeva molto bene in italiano, con padronanza avanzata del lessico, della grammatica e dei registri. Si è sempre rivolta a V dandole del lei.
V invece ha optato per il tu, modi melliflui ed espressioni di rinforzo (ma sì, brava…), di guida dell’attenzione (attenta che ti faccio vedere… ) e uso di ridondanze e di diminutivi (ho questa cremina…) che di solito sono riservati ai bambini o a chi capisce poco e male.
Linguaggio della (s)cortesia
Una trascrizione esclusivamente delle parole di V, fatta però senza rivelare l’interlocutore, non evidenzierebbe nulla di ostile, anzi. Dal vivo invece stridevano vari aspetti paralinguistici (tono, elocuzione e modalità gestuali come gli sguardi) e soprattutto pragmatici, in particolare relativi al linguaggio della cortesia.
Nella cortesia entrano in gioco varie strategie che servono, ad esempio, per il riconoscimento reciproco, per non creare distanza sociale o psicologica e per rassicurare l’interlocutore che il suo ruolo viene riconosciuto, apprezzato e rispettato.
V invece aveva scelto di ignorare le competenze linguistiche e pragmatiche di A, come dimostra l’uso dell’allocutivo tu e del linguaggio per bambini. Ne risultava un atteggiamento paternalistico che creava una forte asimmetria tra V e A.
Mi sono sentita mortificata per A perché dietro la gentilezza di facciata percepivo sprezzo e quindi anche ostilità. E ora rivelo che A parlava molto bene ma aveva l’accento di un paese “da badante”, se fosse stato diverso probabilmente avrebbe avuto un altro trattamento.
Parole neutre e meccanismi ostili
Non è difficile trovare altri esempi di parole neutre o apparentemente gentili che hanno un impatto negativo se usate per sottolineare asimmetrie di potere. Basti pensare ai giovani inesperti che fanno colloqui di lavoro a esodati trattandoli come se fossero i loro nonni, burocrati che si esprimono in modo volutamente incomprensibile, il “mansplaining”, il sessismo di molti sottintesi…
Viene in mente anche l’inadeguatezza di molte comunicazioni scritte, spesso dovuta a scarsa consapevolezza dei registri richiesti da diverse situazioni comunicative: un esempio in “Vorrei un consiglio per la tesi…”.
Questi aspetti si ritrovano esasperati in molte comunicazioni sui social e in altri ambienti digitali, in particolare nelle interazioni con chi la pensa diversamente. In Bucare le bolle (da leggere!) Mafe De Baggis evidenzia proprio l’incapacità di scegliere il linguaggio adatto a interagire con l’interlocutore, anche da parte di chi diffonde informazioni corrette: prevalgono paternalismo, supponenza e disprezzo che creano asimmetrie, aumentano le distanze e accrescono l’ostilità.
Si può ancora rimediare? Sì: De Baggis fa anche l’esempio di messaggi efficaci proprio perché passati con gentilezza.
Ben vengano quindi le iniziative che fanno riflettere e acquisire maggiore consapevolezza non solo dei comportamenti e delle parole ostili, che è l’aspetto più facilmente riconoscibile, ma anche dei meccanismi linguistici e socio-pragmatici della cortesia.
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Vedi anche:
♦ Comunicazione in ospedale (esempi di cortesia empatica)
♦ La “maledizione della conoscenza” (comunicazione ostile!)
♦ Lingue, funzione fatica e cortesia (alcune differenze culturali)
♦ Anglicismi: criteri di condotta e Le comunicazioni istituzionali e il rischio dell’inglese farlocco (quando gli anglicismi sono parole ostili, tema che mi sta molto a cuore)
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Gianmaria:
Mia moglie è francofona e perlomeno qui a Ginevra in circostanze come quelle descritte il Lei è d’obbligo. Le spiegai che se le avessero dato del Lei avrebbero corso il rischio di mostrarsi scortesi in un altro senso, di farla sentire più vecchia di quanto era.
Nell’occasione in questione, a differenza del tuo episodio, non ci fu da parte dei venditori nessun atteggiamento ipocrita o sprezzante.
Licia:
@Gianmaria infatti e va anche considerato che l’uso degli allocutivi cambia non solo in base a variabili diafasiche e diastratiche (cfr. L’evoluzione dell’italiano al tempo dei social) ma anche diatopiche: ci sono molte situazioni in cui a Milano mi danno esclusivamente dei lei mentre nelle stesse situazioni in Romagna è più probabile il tu (e non parliamo dell’uso diverso tra lingue: tedesco molto più formale dell’italiano, spagnolo di meno). Però nella situazione acquirente-venditore, se l’acquirente non è giovanissimo e preferisce il lei, è il venditore che deve adeguarsi e se non lo fa è non solo maleducato ma anche incompetente. In tema: Telemarketing “estero” e pragmatica.
Paoblog:
@licia Il problema è tutto nelle ultime tre righe del commento ovvero nel momento in cui l’altro mostra chiaramente che preferisce il lei, bisogna avere la capacità di capirlo ed adeguarsi.
In ogni caso, anche in ambito aziendale, troppi mi danno subito del “tu” senza neanche porsi il problema ed io continuo imperterrito con il “lei.
Mi piacerebbe dire che “chi la dura, la vince”, ma non è così.
In ogni caso i punti di vista sulla questione differiscono molto a seconda delle regione in cui si vive.
Vedi il post “Smettiamola di darci del tu, grazie”
https://paoblog.net/2014/03/06/persone-57/
Andrea
Adoro questo blog perchè è capace di trasformare un caso di squallido razzismo “quotidiano”, a cui tutti prima o poi abbiamo assistito, in un’analisi dei registri linguistici che, diciamolo, non è la prima cosa a passare per la mente in casi simili…
grazie Licia!
Massimo S.:
Io, da buon meridionale, e con buona pace dell’Accademia della Crusca, rivolgo sempre il “voi” a tutti quelli che non conosco o con cui non ho familiarità…