È uscito da poco Itanglese. Storie di parole da abstract a wine bar del linguista Maurizio Trifone, una lettura molto piacevole e informativa per chiunque sia interessato all’itanglese, “l’italiano infarcito di anglicismi e pseudoanglicismi”.
È una rassegna di 75 percorsi di parole inglesi in italiano entrate nella lingua in epoche diverse, ciascuna con una propria storia. Per ciascun anglicismo scelto è descritta l’origine in inglese e la sua comparsa ed evoluzione in italiano, con molti esempi d’uso tratti principalmente da archivi di giornali e in misura minore da repertori lessicografici, romanzi, saggi, testi istituzionali e carteggi (ma non da pubblicità, dai social o da corpora di italiano). Per ogni anglicismo vengono inoltre indicate opzioni lessicali italiane.
Anche nell’introduzione prevale un’analisi di tipo diacronico, come ad esempio nella descrizione di come si è affermato il nome itanglese sulle alternative apparse in anni diversi (itangliano, italiese, italese, itenglish, itanglish, italaricano, inglesorum…). Ho trovato molto efficace la sintesi di com’è cambiato nel tempo l’atteggiamento verso gli anglicismi, sia nella società italiana che nelle osservazioni degli specialisti, con una panoramica delle posizioni a volte contrastanti di linguisti che si sono occupati dell’impatto dell’inglese sull’italiano, dai puristi che rifiutavano qualsiasi parola straniera ad alcuni “aperturisti” che tendono a ridimensionare le preoccupazioni sulle interferenze dell’inglese.
Trifone include anche alcuni eventi legati all’uso dell’inglese che hanno riscontrato particolare interesse mediatico nell’ultimo decennio: la petizione #dilloinitaliano lanciata da Annamaria Testa nel 2015, descritta come un esempio di attivismo linguistico, e la polemica sull’inglese come lingua unica della comunicazione specialistica nelle università (corsi di laurea e progetti di ricerca esclusivamente in inglese).
Non c’è invece nessun accenno alle varie proposte di legge per la “tutela e la promozione” della lingua italiana apparse in questi anni e molto discusse, eppure erano focalizzate quasi esclusivamente su “uso e abuso di termini stranieri”. Avrebbero offerto lo spunto per confutare le affermazioni linguistiche poco informate che le caratterizzano, poi riprese con ulteriori fraintendimenti in media e social (cfr. Multa per chi usa anglicismi? Non è una novità).
A proposito di social, come già accennato non ne è stato tratto alcun esempio, eppure i social hanno un ruolo importante nella diffusione di alcuni anglicismi – esempio tipico: cringe – che solo in seguito vengano “scoperti” e rilanciati dai media tradizionali, a volte però con una comprensione parziale. Nella descrizione di selfie, ad esempio, Trifone riporta l’equivalenza selfie ⇆ autoscatto di alcuni dizionari, e conclude “nei giornali i due termini vengono usati ancora oggi come sinonimi”. Sono però descrizioni superate: da anni ormai “foto fatta da sé” non è una caratteristica imprescindibile del concetto di selfie, come dimostrano gli esempi d’uso sui social.
Esempi dai social o da corpora di italiano informale o parlato avrebbero inoltre potuto dare anche qualche indicazione sull’appartenenza effettiva degli anglicismi ai repertori linguistici dei parlanti: solo passivi o anche attivi?
La mia impressione è che avere ristretto gli esempi d’uso solo ad alcune varietà di italiano, escludendone completamente altre, potrebbe forse dare l’impressione ai lettori meno informati che la diffusione degli anglicismi avvenga principalmente “dall’alto” attraverso i media tradizionali e la comunicazione istituzionale, e non anche attraverso altri canali e con altre modalità (e da fonti che non sono più ristrette all’inglese britannico e americano ma che includono anche altre varietà, tra cui l’inglese “globale”).
Immagino comunque che non sia stato facile restringere l’analisi a 75 anglicismi, tra i moltissimi in uso in italiano, e che per privilegiare gli aspetti diacronici siano stati preferiti quelli in uso da almeno qualche anno e acquisiti in modo “tradizionale”. L’elenco di esempi è in ogni caso molto vario e interesserà diversi tipi di lettori. Lo riporto anche qui, con il link ai miei post per gli anglicismi che ho descritti anch’io (per alcuni di questi sono citate anche mie osservazioni):
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Francesca
A me i termini inglesi in un testo italiano danno fastidio, a livello di idiosincrasia, quando in italiano esiste un perfetto corrispettivo non eccessivamente prolisso oppure quando l’inglese viene usato apposta per non far comprendere la realtà di una situazione (soprattutto in campo economico-finanziario)… sarà che sono “boomer” 😉