Inglese fаrlocco spiegato agli anglofoni

Titolo: Italians have embraced ‘fake English’ di Amy Kazmin. Sottotitolo: Fuency in ‘inglese farlocco’ has become necessary in Italy as hybrid words and off-kilter meanings proliferate.

Ho avuto il piacere di essere intervistata da Amy Kazmin del Financial Times per un articolo sugli pseudoanglicismi usati in italiano che più spiazzano gli anglofoni. Aggiungo qui qualche dettaglio della nostra conversazione che non ha trovato spazio nel testo.

Pseudoanglicismi

Gli pseudoanglicismi sono parole che hanno l’aspetto di lessico inglese ma che in inglese hanno un altro significato, come flipper, mister, pile, smart working, front runner, o che proprio non esistono, come self bar, stender, job on call, stepchild adoption.

Molti pseudoanglicismi nascono da meccanismi impropri di accorciamento di espressioni o di parole composte, ad es. il bachelorette [party], la spending [review], la voluntary [disclosure], in smart [working]. È un fenomeno dovuto anche a scarsa comprensione di differenze morfosintattiche tra inglese e italiano.

Word cloud con le parole self bar, south working, cash black, Jingle Balls, Exhibitionist Award, Happy Popping, Prenoting, Smuffer, no tamp, free vax, Click Day, personal viagger, black days, tartadog, next opening, every day every pay, VampControl, SNEET, delusion room, job on call, fly down, Italian sounding, BIObreak, Cinema2Day

Inglese farlocco

Qualche anno fa ho cominciato a usare l’espressione inglese farlocco per identificare una sottocategoria di pseudoanglicismi palesemente finti, e mi fa piacere che poi sia stata adottata anche da altri.

Classifico come inglese farlocco nomi di prodotti o di servizi, slogan o altre brevi comunicazioni che sono pensati da italiani per italiani. Sono formati assemblando parole inglesi in combinazioni poco idiomatiche, errate o addirittura inesistenti, però facilmente comprensibili da chi ha solo conoscenze scolastiche dell’inglese, tanto che ogni spiegazione italiana viene ritenuta superflua: basta tradurre letteralmente in italiano, come next opening ➝ “prossima apertura”.

Esempi: click day, Black Days, Follow the Monday, Cinema2Day, MissInAction, no smoking be happy, every day, every pay. Non hanno molto senso per un anglofono e suscitano molte perplessità tra italiani che conoscono bene l’inglese, però risultano trasparenti per il pubblico a cui si rivolgono.  

Nell’inglese farlocco vengono usate solo parole del lessico inglese di base molto note, oppure parole italiane “anglicizzate” con l’aggiunta di suffissi inglesi come –ing, –er  e –y, descritte in Prenoting: inglese farlocco (rappresentativo!) con vari esempi come l’antimuffa Smuffer e i sacchetti per i rifuti Spazzy.

Neoformazioni ibride

I nomi formati da una base italiana con l’aggiunta di un suffisso inglese, come prenoting, sono esempi di neoformazioni ibride (o ibridismi), parole peculiari perché combinano una parola o un elemento radicale da una lingua con un affisso o un’intera parola da un’altra lingua.

In italiano sono più comuni le neoformazioni con base inglese e suffisso italiano, un meccanismo molto produttivo per creare verbi informali della prima coniugazione, come ad esempio ghostare, blessare, flexare, stannare nel lessico giovanile, schedulare, bri(e)ffare, performare nell’aziendalese e linkare, forwardare, downloadare nel lessico informatico (in alternativa ai verbi “ufficiali” collegare, inoltrare e scaricare).

Con base inglese e suffisso italiano vengono creati anche sostantivi, come weekendista, boomerata, cringiometro, boppone, e aggettivi come instagrammabile e cringissimo, un superlativo che pare sia piaciuto molto ai lettori del Financial Times. Peccato che tra gli esempi non sia stato incluso slimmante, un aggettivo “furbo” usato per promuovere integratori alimentari: il significato di slim è noto anche a chi ha conoscenze limitate dell’inglese e così l’aggettivo slimmante consente di far intendere che il prodotto faccia dimagrire senza però affermarlo esplicitamente.

C’è chi inorridisce per parole ibride come queste, ma per i linguisti sono invece un esempio di vitalità della lingua italiana, che in questo modo mostra reattività e capacità di integrare nel proprio sistema linguistico forestierismi ed elementi estranei. Va comunque tenuto presente che non sono parole adatte a tutti i repertori linguistici e a tutti i registri: non a caso l’uso dell’aggettivo smartabile nella comunicazione istituzionale aveva suscitato molte perplessità.


immagine del podcast e link a Noi italiani abusiamo degli anglicismi farlocchi?

Ieri ho discusso di pseudoanglicismi anche con Ruggero Po nel podcast Start On Air. Tra altre cose, ho sottolineato che quello di anglicismi e pseudoanglicismi non è un fenomeno solo italiano ma si trova anche in altre lingue: uno degli esempi fatti dal Financial Times, autostop, ci arriva dal francese . Si può ascoltare o scaricare il podacast da Noi italiani abusiamo degli anglicismi farlocchi?


Vedi anche:

7 commenti su “Inglese fаrlocco spiegato agli anglofoni”

  1. Giovanni:

    Gentilissima,
    grazie per questo suo contributo sul dilagante morbus anglicus di demauriana memoria.
    In fatto di pseudoanglicismi in auge, mi permetto di segnalarle “smartuorching”, coniato in uno scellerato dipartimento del Politecnico di Torino e in uso solo in Italia, come si può facilmente constatare digitando la parola sul motore di ricerca di Google.

  2. Licia:

    @Giovanni, grazie ma è proprio uno degli esempi che ho fatto qui sopra, con un collegamento a Lavorare da casa non è smart working! (marzo 2020), che è stato uno dei post più consultati durante la pandemia. Già nel 2016 in Agilità sul lavoro! avevo spiegato, per prima in Italia, perché la locuzione smart working è uno pseudoanglicismo ed è usata impropriamente: in inglese il concetto denominato smart working esiste, ma ha un altro significato.

    aspetti rilevanti di flexible working, smart working e agile working

    Mi permetto anche una precisazione: morbus anglicus è un’espressione coniata dal linguista Arrigo Castellani. Tullio De Mauro era di vedute molto più ampie sull’uso dei forestierismi e dispiace vedere che gli vengano attribuite tardive conversioni per l’uso di tsunami anglicus in un articolo divulgativo uscito poco prima della sua scomparsa (non mi stupirei se l’idea fosse stata di qualche titolista e non sua).

  3. Alessandra:

    Cara Licia,
    sono contenta che il tuo prezioso lavoro riceva il meritato apprezzamento internazionale. Ti seguo sempre con enorme interesse.
    Un abbraccio

  4. Dimaco:

    Cinquanta, o forse sessant’anni fa, nell’euforia pionieristica del basket in Italia, saltò fuori il ruolo di “playmaker”, che per i non avvezzi è il giocatore del quintetto deputato a portare la palla ed impostare il gioco. Tale termine poi si estese anche ad altri sport, come il calcio.
    Ebbene, negli USA la parola “playmaker” NON esiste. Il giocatore con tali mansioni si chiama “point guard”, e se ad un americano ti rivolgi con il termine da noi artificialmente inventato non capisce di cosa gli stai parlando.

  5. Licia:

    @Dimaco grazie per l’esempio. Sulla terminologia sportiva non mi posso esprimere perché non so nulla. In inglese però la parola playmaker esiste, cfr. ad es. le definizioni e gli esempi di Collins Dictionary e Cambridge Dictionary, britannici, e Merriam-Webster, americano: “a player who leads the offense for a team (as in basketball or hockey)”.

    Se si fa una ricerca in Google Books per l’inglese americano, si trovano vari esempi a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso anche nel contesto basketball. Non sono però in grado di confrontare l’uso in inglese e in italiano perché è uno sport che non conosco per nulla.

  6. Dimaco:

    Grazie per il chiarimento. In effetti esiste, e ne chiarisce le funzioni, ma probabilmente negli USA non ne identifica il ruolo specifico (nel basket italiano è un cosiddetto “piccolo”, che gioca in prevalenza a distanza dal canestro).

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