Chi mi segue qui sul blog e su Twitter sa cosa penso dell’itanglese: sono alquanto infastidita dagli anglicismi superflui e non perdo occasione per mettere in discussione l’uso che ne fanno media, aziende e istituzioni.
Proprio per questo sono piuttosto divertita di essere finita nella categoria “voi anglopuristi [che] preferite parlare l’itanglese, ingessare l’italiano a lingua dei morti e spacciare per prestito di necessità tutto quel che potete”.
È successo sul blog Diciamolo in italiano, in uno di vari scambi piuttosto vivaci che ho avuto con il suo proprietario Antonio Zoppetti. Ci siamo conosciuti in occasione di una partecipazione a La lingua batte (cfr. Le fake news della Polizia: relazioni pericolose?) e so che posso permettermi queste discussioni: siamo entrambi appassionati della lingua italiana e critici verso gli anglicismi, solo che lo facciamo con conoscenze, competenze e punti di vista diversi.
Gli anglicismi non sono tutti uguali!
Sono convinta che si debba distinguere tra anglicismi insostituibili, utili e superflui e tra lessico comune e specialistico, come già descritto in L’invasione degli anglicismi. Ci sono infatti alcuni ambiti in cui il prestito si rivela la scelta più adeguata.
Inoltre, penso sia inutile cercare di contrastare prestiti in uso da tempo e che si sono rivelati insostituibili o utili: nel 2018 non ha più molto senso cercare alternative per parole come bar, OK, computer, mouse, file, blog, browser, boy scout, ma è meglio concentrare l’attenzione sui prestiti più recenti che non sono ancora entrati stabilmente nell’uso.
Alcune distinzioni
Zoppetti tende a mettere tutti gli anglicismi sullo stesso piano: angel investor ha lo stesso valore di airbag. Andrebbero invece considerati vari aspetti discriminanti quali frequenza, distribuzione, specializzazione, visibilità, riconoscibilità, entrata in uso e altri aspetti diacronici (ne ho descritti alcuni in Terminologia e comunicazione; altri dettagli nei commenti).
Un anglicismo, come ogni altra parola della lingua, non è un’entità a sé stante, isolata, ma va analizzato all’interno del suo sistema concettuale, in relazione ad altri concetti, e prendendo in considerazione ambiti e contesti d’uso ed eventuali aspetti sociolinguistici e pragmatici.
Non tutti gli anglicismi hanno la stessa rilevanza e lo stesso impatto: food al posto di cibo o di alimenti risulta ridicolo se usato dal bar del paesino di provincia che cerca di attirare clienti, preoccupante e inaccettabile se invece si tratta del Ministero delle politiche agricole alimentari o di un’altra istituzione che si rivolge ai cittadini e deve farsi capire (cfr. Food Act e altri anglicismi istituzionali).
Se invece non si fa alcuna distinzione e si rifiuta in blocco qualsiasi anglicismo solo perché non ha l’aspetto di una parola italiana “tradizionale”, il messaggio rischia di essere poco credibile e verrà ascoltato solo da chi ha già tendenze puriste, ma verrà invece ignorato dagli amanti degli anglicismi.
Alternative agli anglicismi
Se l’anglicismo non è ancora entrato stabilmente nell’uso, ritengo anch’io che andrebbe cercata un’alternativa italiana. Ovviamente, vanno sempre considerati anche parole e termini già nel sistema concettuale per assicurare congruenza (cfr. Ransomware, malware e altri –ware e “Provate voi a tradurre home page”).
Si deve comunque resistere alla tentazione di “tradurre” letteralmente e farsi influenzare troppo dalla forma inglese, come descritto in Brainstorming e formazione dei termini in L2 e in Come dire home restaurant in italiano.
I neologismi inglesi possono infatti avere un’origine abbastanza casuale o derivare da metafore imperfette o connotate culturalmente (cfr. Cookie per tutti!) che non sono trasparenti se riproposte letteralmente in italiano: provate a immaginare il tentativo di sostituire l’anglicismo drone con fuco, e cioè una risemantizzazione del suo “traducente” italiano, senza considerare che il nome originale non era del tutto rilevante (cfr. Dai fuchi ai droni).
Nessun catastrofismo!
Trovo molto efficace la sintesi di Francesco Sabatini* che descrive i troppi anglicismi come “un misto di pigrizia, esibizionismo ed elitarismo” e sono sempre più convinta che il loro abuso sia inversamente proporzionale all’effettiva conoscenza dell’inglese. Per contrastarli non servono quindi interventi dall’alto ma sono necessarie competenze linguistiche più approfondite, sia in inglese che in italiano, e maggiore consapevolezza nell’uso della lingua.
Sicuramente non siamo vittime ignare di entità straniere, come invece sembra insinuare Zoppetti quando dichiara che “è un problema di ecologia linguistica di fronte all’espansione delle multinazionali americane che, come effetto collaterale, insieme ai loro prodotti impongono in tutto il mondo anche il loro linguaggio”. Di certo non è così nell’ambito della localizzazione del software, dove viene privilegiata terminologia italiana e si ricorre al prestito solo se il concetto è già noto con il nome inglese (sarebbe controproducente un’alternativa italiana che nessuno usa, come etichetta per hashtag).
In conclusione: anch’io sono infastidita dal bombardamento quotidiano di anglicismi inutili, che spesso raggiunge livelli ridicoli, e trovo inaccettabile l’uso che ne fanno le istituzioni. Ma non sono preoccupata per le sorti dell’italiano: nonostante le apparenze, la nostra lingua non rischia affatto di scomparire!
Per approfondire:
♦ L’invasione degli anglicismi
♦ Anglicismi: un piccolo esperimento (uso percepito vs uso reale)
♦ Ancora itanglese (abuso e conoscenza dell’inglese)
♦ Anglicismi: criteri di condotta (i requisiti di F. Sabatini)
♦ Elenco di anglicismi istituzionali
♦ Le comunicazioni istituzionali e il rischio dell’inglese farlocco
♦ Anglicismi: Gruppo Incipit contro MIUR
♦ Chi dice “nel mio living”? (esposizione passiva vs uso attivo)
♦ Davvero fra 80 anni non si parlerà più italiano? (proposte di legge a tutela della lingua)
* Fonte della citazione di Francesco Sabatini:
Paoblog:
Da persona normale (ovvero non esperto del settore) io sono sicuramente più rigido di te, ma in ogni caso non quanto Zoppetti.
Non sono contrario a priori all’utilizzo di termini stranieri che magari possono essere intraducibili in italiano e/o scomodi da utilizzare, tanto più in certi ambiti lavorativi.
Non voglio certo cadere nell’idea Mussoliniana che portò ad italianizzare persino i nomi delle località (Courmayeur = Cormaiore), però credo sia possibile parlare un buon italiano e, contestualmente, integrarlo con termini inglesi, quando sia realmente necessario.
zoppaz:
Sì però vediamo di fare delle affermazioni corrette… io non “rifiuto in blocco qualsiasi anglicismo solo perché non ha l’aspetto di una parola italiana tradizionale”, questo è falso: TUTTI i forestierismi (non solo quelli inglesi) possono essere ben accetti. Che per fascista non ci voglio passare!
Detto questo è un problema di NUMERI,che è il vero punto. In 70 anni la nostra lingua ha importato più di 3000 anglicismi NON ADATTATI (stando ai izionari, nella lingua della Rete son molti di più) una lingua nella lingua, che ormai permette di parlare in itanglese in molti ambiti. In questo contesto il rubinetto aperto va fermato, oppure cambierà la nostra lingua (non ci sono precedenti storici di questa massività in così poco tempo; i substrati pluriescolari del fracese, che ci ha influenzato dai tempi di Dante, delle invasioni, dell’illuminismo, di Napleone e della Belle Epoque, ci ha lasciato meno di 1.000 gallicismi non adattati). Tu puoi anche non essere preoccupata delle sorti dell’italiano, non si sa su quali basi e numeri. Io lo sono e le mie preoccuipazioni sono supportate dai numeri.
Mauro:
Io credo di essere più vicino a Zoppetti che a te, anche certo non estremizzo come lui.
Tu definisci tre categorie di anglicismi: insostituibili, utili e superflui.
Per me sono solo due, visto che ritengo la categoria “utili” superflua, al massimo utilizzabile come sottocategoria di “superflui”.
Se un anglicismo è solo utile ma non necessario, significa che il problema è la cultura di chi lo usa, non l’uso in generale o la lingua italiana. Quindi che quella persona studi e impari l’italiano prima di parlare o scrivere.
E “superflui” talvolta sarei tentato di ridefinirli come “dannosi”.
Licia:
@zoppaz, lingua = numeri? Ammettendo anche che sia plausibile e si possa davvero ridurre una lingua a meri numeri, a me sembrano molto gonfiati. Ho appena dato un’occhiata velocissima e nei tuoi elenchi hai incluso anglicismi come advergame, component approach, cooperative compliance, fatkini, camber o fablab, tanto per prenderne qualcuno a caso, che sono parole sicuramente mai viste o sentite dalla maggior parte dei parlanti. Eppure in questa visione sono anglicismi che “contano” tanto quanto parole del lessico comune come film, file, CD o computer! Vedo anche che sono stati inclusi nomi propri come Champions League, Barbie, Canadair, Fosbury, oppure nomi di prodotti tipici come il formaggio cheddar. C’è anche la parola Christmas, che al massimo si usa negli auguri con scritte in più lingue, e anche francesismi come cric... In questo modo si fa presto ad allungare gli elenchi!
@Mauro, visto che sei un fisico abituato a usare metodi scientifici, cosa mi dici dei numeri e di qualsiasi anglicismo buttato nello stesso calderone senza fare alcuna valutazione di alcun genere su frequenza, distribuzione ecc.?
Enrico:
La lingua italiana è viva e vegeta, e chi afferma il contrario, paventando l’imminente morte della lingua, mi pare un attimo catastrofista.
Come diceva il mio vecchio docente di Linguistica Italiana, non è tanto il lessico a fare la lingua, quanto, piuttosto, la sintassi.
Questa è molto più difficile da attaccare, e finché quella resta solida, non dovremmo preoccuparci più di tanto. I danni che gli italiani fanno alla sintassi riguardano più che altro l’inglese stesso (es. “Area street food”, nel manifesto qui sopra).
Vero è, comunque, che il lessico della lingua è prezioso.
Così come la TV ha insegnato l’italiano standard a milioni di italiani negli anni del dopoguerra, allo stesso modo i media moderni dovrebbero essere punti di riferimento per la correttezza della lingua. Purtroppo non è così, visto che i media (quelli “social”, per primi) non sono controllati da autorità in campo linguistico, ma dall’uomo qualunque, il parlante d’itanglese da bar dello sport.
zoppaz:
I miei elenchi raccolgono oltre 4000 anglicismi, ricavati dall’analisi delle pagine in Rete e dai giornali, e non fanno testo. Il numero che ho citato di 3.000 è quello ricavato dai dizionari (fltrato, perché il totale è circa 3.500). Cric è un errore, non ce ne sono molti altri, qualcuno presumo di sì, anche perché questi elenchi sono nello stato di bozza. Qualunque studio sul numero degli anglicismi non può fare distinzioni qualitative per es. tra “fosbury” (è un nome comune ti informo, non confondiamo l’etimo con il significato assunto del sostantivo/aggettivo) e “film”: l’analisi dell’interferenza dell’inglese sul lessico dei dizionari è questa.
Asandus:
Ci sono termini stranieri (non solo inglesi) che sono entrati nell’uso e si prendono così come sono, anche perché, pur essendo magari traducibili, sono usati in contesti diversi. Tradurre “computer” con “calcolatore”, sì, si potrebbe, ma il termine in italiano è troppo generico. E “mouse” con “topo”, per fare un altro esempio: il topo è il famoso roditore, ma quando si dice “mouse” nessuno pensa a un topo, ma a quel coso con o senza filo che si usa in accoppiata al calco… ahem, al computer. Ne abbiamo anche in altre lingue: non saprei come fare a rinunciare al garage, allo yogurt, ai würstel, al karaoke, eccetera, in favore di termini italiani – o sono intraducibili, o perderebbero completamente il significato con cui vengono usati. Però già solo quando sento tanti (e soprattutto le istituzioni) usare termini come “performance”, tra l’altro pronunciato alla mentula canis con l’accento sulla prima sillaba, “location”, “mission” e altri obbrobri del genere mi viene un bel “fuck you” da rivolgere loro, per poi tradurglielo (questo si può!) in italiano se fanno gli gnorri. Poi quando s’inventano il cibo di cemento armato (il più divertente dei cartelli che hai riportato nell’immagine del post) mi viene voglia di farglielo mangiare tutto.
Mauro:
@ Licia
Se devo essere sincero la frequenza a mio parere non dice nulla: se esiste un termine italiano – e sottintendo: se esiste, non se viene creato ad hoc – non importa che l’anglicismo sia usato da una persona su due o da una persona su venti milioni. Rimane sbagliato e da evitare.
Anche in fisica e matematica ci sono errori comuni frequentissimi… ma non è che il loro essere frequentissimi li renda giusti e cambi la fisica o la matematica 😉
Per quanto riguarda la distribuzione, dipende cosa si intende in linguistica con distribuzione.
Non sono sicuro che noi la intendiamo allo stesso modo, quindi prima di rispondere, chiedo.
Mauro:
Intendevo “e sottolineo”, non “e sottindendo”…
Monmartre:
Buon giorno,
da quando seguo questo bloggo mi sono ammorbidito molto (o forse un poco), ma concordo che la deriva è evidente: chi organizza un qualsiasi incontro pensa a come metterlo “carinamente” in inglese (proprio ieri davanti al Politecnico c’era lo «streeat food») e chi lo legge lo trova divertente.
Il problema grave è, probabilmente, proprio questo: l’essere italiano e non sentire la necessità di comunicare in italiano. Se lo scopo del commercio (televisione, giornali, insegne…) è quello di attrarre le persone, di farsi conoscere e capire e viene spontaneo l’inglese… questo è quello che non va.
Ho verificato in ambito lavorativo – informatico – che l’uso di termini italiani è soltanto questione d’abitudine: cambio spesso colleghi e, dopo un mesetto che interagisco con loro, non hanno piú lo stupore iniziale quando uso missiva o posta invece di e-mail o dell’errato mail. Se poi devo farmi capire da un collega che non conosco, uso anch’io e-mail, ma, ripeto, è soltanto questione d’abitudine… e gl’italiani si stanno abituando troppo all’inglese.
Licia:
@Mauro, distribution in Glossary of Corpus Linguistics di Paul Baker, Andrew Hardie, Tony McEnery:
Aggiungo anche un esempio di parametri che andrebbero considerati nella costruzione di un corpus, da Representativeness in Corpus Design di Douglas Bieber in Practical lexicography a cura di Thierry Fontenelle.
Sono parametri che tengono conto della multidimensionalità della lingua: a seconda della situazione, dell’interlocutore e delle finalità comunicative usiamo varietà diverse che si distinguono anche per un diverso uso del lessico. Limitare le proprie ricerche a un corpus costituito da articoli di quotidiani (una specifica varietà linguistica) non è rappresentativo dell’uso effettivo degli anglicismi nella lingua italiana ma ne dà una visione amplificata e quindi distorta (cfr. Antonelli e temperatura percepita in L’invasione degli anglicismi).
@Monmartre, mi domando però quale sia il vantaggio di usare bloggo anziché blog, o rifiutare email o mail (non può essere “sbagliato” se lo usano milioni di parlanti!) a priori solo perché sono parole inglesi – indubbiamente hanno il vantaggio della brevità su posta elettronica e ormai sono comprese da chiunque abbia mai usato un computer. Credo che la priorità dovrebbe essere la comunicazione e non la forma: cfr. anche esempi di @Asandus.
Per il resto sono d’accordo che l’inglese viene troppo spesso usato scioccamente e a chi lo fa, se in posizione pubblica, ne va chiesta ragione (io lo faccio: la mia attività su Twitter con #dilloinitaliano e #itanglese e qui nel blog credo lo dimostri, cfr. i post con tag itanglese). Però non bisogna neppure fare “di tutta l’erba un fascio”! 🙂
Emy:
Licia, sarò breve: sono completamente d’accordo con te, parola per parola, riga per riga. Bravissima!
Emy:
@zoppaz: “massività”? Non trovo questa parola in alcun dizionario. Trovo però massivo, dal francese massif, termine usato in fisica ma a volte anche nel linguaggio non specialistico, in senso affine a “massiccio”, ovvero “in abbondante quantità”. http://www.treccani.it/vocabolario/massivo/
Per coerenza con le tue posizioni non sarebbe stato meglio dire “abbondanza” invece di ricorrere a un francesismo di moda? 😉 http://www.larousse.fr/dictionnaires/francais/massivit%C3%A9/49750
Giovanna:
Ogni volta che posso, seguo volentieri questo blog perché mi permette di imparare cose nuove. L’autrice riflette su vari aspetti linguistici dal punto di vista dell’analisi terminologica e questo per me, che faccio la traduttrice, è molto interessante, giacché l’aspetto terminologico è parte integrante del lavoro del traduttore. Sostenere che l’autrice rientri nella categoria degli “anglopuristi che preferiscono parlare l’itanglese” (sempre che una simile categoria esista) mi sembra, oltre che sbagliato, anche riduttivo. È sbagliato, perché praticamente in tutti gli interventi Licia mette in evidenza proprio l’uso degli anglicismi superflui, fornendo sempre esaurienti spiegazioni anche per chi non ha familiarità con l’approccio terminologico. Ed è anche riduttivo, perché la varietà degli argomenti trattati da Licia è tale da non poterla proprio inserire in una qualsiasi categoria.
Secondo me il diffondersi dei prestiti dall’inglese non rappresenta una minaccia per la sopravvivenza dell’italiano; la “fortuna” di una parola dipende soprattutto dal suo uso, legato a vari fattori e che non si può certamente imporre o vietare. Sono i parlanti che decidono se usare una parola inglese o optare per un corrispondente in italiano, magari coniato in modo creativo. Il pericolo è semmai che una lingua si inaridisca perché si legge sempre meno, dimenticando pian piano tutte le sue sfumature e la sua potenzialità creativa. Più che l’uso di troppe parole inglesi, insomma, a me farebbe paura l’uso di troppo poche parole.
Licia:
Grazie Emy e Giovanna. 😊
Ho appena aggiunto un commento a un nuovo post sul blog Diciamolo in italiano, La presenza di anglicismi e altri forestierismi dallo spoglio del Devoto Oli:
Daremmo rilevanza a un’analisi dello stato di salute dei cittadini di un paese basata esclusivamente sul numero di patologie elencate in un’enciclopedia medica, senza alcuna distinzione tra quelle ricorrenti e quelle invece rare, mettendo sullo stesso piano malattie tuttora diffuse e malattie invece debellate da tempo, senza considerazioni su tasso di infettività (capacità di penetrare, attecchire e moltiplicarsi), ricettività dei soggetti e altri fattori (ambientali, sociali e altro) che ne condizionano la diffusione? Dubito esista un’analisi di questo tipo perché non sarebbe scientifica.
Le stesse considerazioni valgono anche per le valutazioni sull’incidenza degli anglicismi basate esclusivamente sui numeri ricavati da spoglio di dizionari ma che non tengono conto di frequenza, distribuzione, variabili sociolinguistiche (diafasica, diamesica, diastratica, diacronica, diatopica), specializzazione, modalità d’uso e altri fattori. Credo che anche altri linguisti esprimerebbero perplessità simili alle mie.
Non ho invece commentato il post precedente di Zoppetti, Il disastro della terminologia informatica italiana di fronte all’inglese, perché ci vorrebbe troppo tempo per segnalare le numerose imprecisioni che contiene (chiaramente l’autore non ha alcuna esperienza diretta di localizzazione).
Flavia:
La ‘malattia’ è endogena: http://gruppodifirenze.blogspot.it/2017/02/contro-il-declino-dellitaliano-scuola.html
con buona pace di chi crede il contrario. 🙂
Giorgio:
@Mauro
“Anche in fisica e matematica ci sono errori comuni frequentissimi… ma non è che il loro essere frequentissimi li renda giusti e cambi la fisica o la matematica”
Suvvia, che esempio, sono due campi molto diversi. La fisica è una descrizione della realtà, la lingua è un’invenzione umana, ed è “viva” e si evolve, non stiamo parlando lo stesso italiano di cent’anni fa, così come gli inglesi non parlano l’Old English.
E a volta gli “errori” entrano sì a far parte della parlata comune, come per esempio la doppia negazione italiana.