In primavera la campagna romagnola si tinge di rosa, un vero spettacolo. In Romagna si produce infatti oltre il 50% delle nettarine e il 20% delle pesche italiane, una coltura nata agli inizi del ‘900 e fino a qualche anno fa così importante e pervasiva che se ne trovano tracce anche nella lingua. Tra queste, un modo di dire tipicamente romagnolo è trovarsi / mettere / essere nelle pesche.
Dalle peste italiane…
La locuzione romagnola assomiglia molto all’espressione italiana essere nelle peste, “essere negli impicci; non sapere come uscire da una situazione difficile o sgradevole, come se a un certo punto di un percorso difficoltoso e sconosciuto le peste, cioè le orme che si stavano seguendo, si facessero troppo confuse per essere utili” (Dizionario dei modi di dire).
Il significato di essere nelle pesche è simile e in senso esteso può indicare anche un problema serio di tipo economico o di salute.
…alle pesche romagnole
Le “pesche” in cui si può trovare in Romagna hanno però un’altra origine, riconducibile alla frutticoltura.
Il blog moglie da una vita fa gli esempi in dialetto a sò in tal pésgh, am sò trova in tal pésgh, i ma mès in tal pésgh (sono nelle pesche, mi sono trovata nelle pesche, mi hanno messa nelle pesche) e spiega che il riferimento è al periodo della raccolta pesche, che arrivava tutto in una volta “e ci si doveva dar da fare a coglierle per non trovarsi con pesche troppo mature, brodolose”.
Un’altra conferma arriva da Daniela Malavolti e da altri romagnoli, concordi che l’origine di essere nelle pesche come metafora di una situazione critica e complessa da gestire va trovata nel lavoro contadino:
«La raccolta delle pesche fino agli anni ’90 avveniva solo in agosto, a differenza di oggi che inizia a giugno e si protrae fino a settembre. La raccolta era dunque concentrata in piena estate; si faceva a più riprese nel giro di poche settimane. Gli stessi filari venivano infatti “ripassati” ovvero raccolti più volte per selezionare i frutti maturi al punto giusto. Questo imponeva tempi di lavoro molto intensi e con improvvise esigenze di raccolta poiché il sole agostano velocizza la maturazione dei frutti. Il rischio per il fattore/contadino era quello di trovare, da un giorno all’altro, i propri frutti troppo maturi per essere raccolti e venduti. Monitorare la maturazione e valutare di quante persone disporre per la raccolta era un vero problema: fino agli anni ’80, venivano mobilitate intere famiglie, vicini di casa, operai. L’incubo del fattore/contadino era quello di perdere improvvisamente parte del raccolto.»
Potrebbe anche trattarsi di un fenomeno di etimologia popolare con rianalisi dell’espressione italiana essere nelle peste, ma la spiegazione dei parlanti locali mi pare comunque plausibile. Nell’italiano romagnolo infatti non è l’unico modo di dire legato a questo frutto.
(fino agli anni ‘90 la pesca era la coltura predominante, poi sostituita dalla nettarina)
È una bella pesca!
Daniela mi ha raccontato che gli anziani romagnoli tuttora dicono è un bella pesca per descrivere una grossa difficoltà (cfr. è una bella gatta da pelare). L’espressione fa riferimento alla pesca con il pelo, molto fastidiosa da raccogliere anche perché sotto il solleone di agosto bisognava coprirsi completamente per evitare irritazioni causate dalla peluria del frutto.
Meglio non essere una pesca
Essere una pesca è anche un modo di dire per riferirsi a persone. Non è un complimento: se di qualcuno si dice che è una pesca, può voler dire che è noioso e pedante, quasi insopportabile.
Vedi anche:
Si dice in Romagna… (geomonimi particolari)
Cocomeri strampalati (un altro frutto tipico!)
La barosola (con quiz per non romagnoli)
Rianalisi: da percoca a *percocca (una varietà di pesco)
Flavia:
Il termine in questione è ‘pesgh’ o ‘persgh’? nel Vocabolario romagnolo (p.572) leggo che PERSGH è l’albero che produce la ‘persga’, ma a p. 574, alla voce PESCA (‘pesch’), gli esempi riportati si avvicinano molto al modo di dire “essere nelle peste” : https://archive.org/stream/vocabolarioromag00morruoft#page/574/mode/2up
A quanto sembra ‘persgh’ è l’albero, non il frutto che si dice ‘persga’, femminile, come in italiano; è in veneto che chiamiamo ‘persego’, maschile, il frutto. E ‘persegàro’, l’albero. 😀
Licia:
@Flavia, mi hai fatto tornare in mente la diatriba tra i miei compagni di casa all’università, entrambi veneti ma di due zone diverse: in dialetto cipolla si dice siòla o ségola? 😀
Emy:
In Piemonte (ma, pare, anche in Liguria e in Lombardia) l’equivalente di “essere nelle pesche” è “essere nelle canne”, ovvero “trovarsi in difficoltà” (perché le canne sono molto alte e muoversi in un canneto è difficoltoso). L’espressione è riportata nel Sabatini-Coletti del 2004 e nel Gradit.
Emy:
L’espressione piemontese, lombarda e ligure “essere nelle canne” fa riferimento alla navigazione fluviale, non al camminare nei campi: quando in barca (magari andando a pesca) ci si imbatte in un canneto ci si trova “nelle secche” e diventa difficile muoversi.
E secondo l’etimo riportato dal vocabolario romagnolo citato sopra da Flavia, anche “essere nelle pesche” si riferirebbe alla pesca intesa come luogo ove si pesca (fiumi), e non al frutto detto pesca né all’albero del pesco.
Il vocabolario romagnolo riporta ben cinque modi di dire in cui pésch è ricollegato alle “secche” fluviali o marine: armanër in t al pésch (rimaner nelle secche, o nelle peste, o in asso), cavês d’in t al pesch (uscir dal fango, del gagno o d’imbrentina, spelagarsi), cavé d’in t al pésch (cavar di fondo), lassèr in t al pésch (lasciare nelle peste, al colonnino, in asso, in isola), mettr in t al pésch (imbarcare qualcuno), con riferimento a essere in imbroglio (inteso come difficoltà), mettere in imbroglio e levare da un imbroglio.
La spiegazione riportata da un paio di blog che vuole collegare l’espressione “essere nelle pesche” alla frutticoltura romagnola delle pesche mi sembra una classica paretimologia. Ma chissà.
Anna Lisa:
Ciao! A Verona si dice séola. Il veneto non esiste… 🙂
Licia:
@Emy @Flavia un dettaglio che va considerato è che il vocabolario citato è del 1840, quindi più di mezzo secolo prima che in Romagna iniziasse la coltura (e cultura!) del pesco.
Con questo post volevo comunque sottolineare l’impatto che possono avere le attività economiche sulle varietà linguistiche locali e sulla percezione dei parlanti (paretimologia / etimologia popolare e altri fenomeni di rianalisi come gli eggcorn hanno in comune la plausibilità!).
Andrea:
Non ho capito: che irritazioni dà la peluria del frutto? Io mangio pure la buccia…
Flavia:
Le etimologie popolari sono sempre interessanti e denotano un rapporto vivo con le lingue, però nell’espressione “a sò /am sò trovà/i ma més in tal pésgh” c’è qualcosa che non convince: tradotto in italiano sarebbe “sono/mi sono trovato/mi hanno messo nel pesco”. Come, ‘nel pesco’? dovrebbe essere “nelle pesche” che, stando al Vocabolario del romagnolo, si dice ‘persga’, plurale ‘persghe’.
Comunque sia, loro la variante, loro l’interpretazione.
Torniamo alle nostre ‘cipolle’ venete: nel galepìn de la lengua vèneta http://parnodexmentegar.orgfree.com/pages/vec/dictionary.htm alla voce ‘cipolla’ si trova: sèola, séola, zéola, zévola, zégola. (L’ultima è la mia variante veneto-polesana; la Z si pronuncia sorda)
Emy:
@Flavia
Mi sono informata presso fonti dirette, ovvero abitanti della zona fra Rimini e Sant’Arcangelo di Romagna. La pesca (il frutto) si dice “pèsga”, contrazione di “pèrsga”, al plurale “al pèsghi”. L’albero del pesco al singolare è ‘”e pèsc”, al plurale “i pèsc”. L’espressione mi è stata riportata come “èss (n)t’al pèsghi”, dunque letteralmente “essere nelle pesche”.
Emy:
@Licia
Va anche sottolineato che la descrizione di Daniela Malavolti – che fa riferimento all’incubo dei contadini di rovinare o perdere improvvisamente parte del raccolto di pesche – addotta a giustificazione dell’etimo dell’espressione “essere nelle pesche”, in Italia può essere tranquillamente applicata ad altre coltivazioni ortofrutticole, e in particolare a quella dell’uva.
In Piemonte, nelle Langhe, i viticoltori potrebbero addurre la stessa ragione per giustificare l’etimo di quel modo di dire, se localmente esistesse e davvero avesse quell’origine: anche per l’uva l’esposizione al sole per qualche giorno in più può essere disastrosa: l’uva può diventare troppo matura e zuccherina o perfino marcia, con danni irreparabili per il vino, ed economicamente anche più importanti, dato che per i contadini delle Langhe la vite è una monocoltura, mentre per quelli romagnoli, per quanto importanti siano le pesche, la produzione ortofrutticola è più diversificata.
Anche il periodo della vendemmia (in questo caso fra settembre e ottobre) è il più frenetico dell’anno e i viticoltori fanno ricorso all’aiuto di amici, parenti e lavoratori stagionali per raccogliere l’uva il più velocemente possibile. Nulla di molto diverso rispetto alle pesche.
Ma non esiste, nelle Langhe, un modo di dire che faccia riferimento alla difficoltà di “essere nell’uva” o similari, ed esiste, invece, l’espressione “essere nelle canne”, molto simile a quella italiana, antica e financo letteraria, “essere nelle pesTe”.
“Essere nelle peste”, peraltro, si dice in tutta Italia ed è molto usato proprio nelle regioni limitrofe all’Emilia-Romagna, particolarmente Marche e Toscana. Linguisticamente è poco probabile che un’espressione diversa, ma così simile nella forma e nel significato metaforico, abbia avuto un’origine indipendente, grazie alla coltivazione delle pesche, in una regione confinante. La mia opinione è che l’espressione romagnola “essere nelle pesche” sia una semplice corruzione dialettale dell’italiano standard “essere nelle peste”.
Lele:
Nel dialetto dell’Oltrepò Pavese, la pesca viene chiamata pèrsi (masch.), in un modo che ricorda, forse meglio del romagnolo pésgh, la provenienza della pianta, detta Prunus persica (secondo Wikipedia “Dall’oriente il pesco giunse in Persia, donde giunse in Europa”).