Ultimamente si discute molto di open data, i dati resi disponibili gratuitamente in formati aperti con una licenza che consente di riutilizzarli, modificarli e condividerli liberamente, cfr. Open data per la pubblica amministrazione.
Si sta diffondendo anche il neologismo openwashing (grafia alternativa open washing), che nel contesto open data indica l’azione di presentare come “aperti” dati che in realtà non lo sono perché incompleti, non sufficientemente dettagliati, non facilmente riutilizzabili, con particolari restrizioni d’uso ecc.
Il concetto di openwashing è riferibile ad altri tipi di conoscenza aperta, quindi non solo dati ma anche software (open source), licenze d’uso (open licensing), contenuti ecc. Descrive qualsiasi pratica di mascherare prodotti e dati (e chi li rende disponibili) come aperti per renderli più attraenti.
Cosa c’entra “washing”?
In inglese –washing è un elemento formativo recente. Deriva dal verbo whitewash, imbiancare (non c’entra alcun tipo di lavaggio!), che ho già descritto in Una mano di greenwash:
l’espressione whitewashing descrive i tentativi di nascondere la verità su persone, organizzazioni o prodotti per proteggerne la reputazione o farli apparire migliori di quanto siano. Si “ricopre” per occultare o per conferire una patina di credibilità ma è una verniciatura sotto cui rimane il problema (cfr. l’espressione biblica whitewashed tombs, i sepolcri imbiancati). |
Sull’esempio di whitewashing (colour+washing) sono stati formati greenwashing e pinkwashing da cui si è poi passati più liberamente al modello adjective+washing, come social washing e openwashing.
Riferimenti:
♦ #openwashing…anyone?
♦ Openwashing: adopter beware
♦ Openwashing – the new Greenwashing
♦ Open-washing – The difference between opening your data and simply making them available