Il kit del traduttore: workshop a Verona

KitTrad

Venerdì 12 febbraio sarò all’Università di Verona per il workshop Il kit del traduttore: dalla teoria alla pratica. È un evento gratuito che offre ad aspiranti traduttori e traduttori professionisti un’occasione per conoscere le nuove frontiere del mondo traduttivo e sperimentare l’efficacia di alcuni suoi strumenti.

Interverranno Valeria Aliperta sul personal branding, Marcello Federico su traduzione automatica e post-editing, Maria Pia Montoro ed io sulla terminologia.

Programma, informazioni pratiche e modalità di iscrizione qui (già raggiunto il numero massimo di iscritti). 

10 commenti su “Il kit del traduttore: workshop a Verona”

  1. Licia:

    @Massimo, quindi suggeriresti di sostituire kit con corredo, equipaggiamento o attrezzatura? 😉 Puoi rivolgerti direttamente agli organizzatori attraverso la pagina contatti.
    Credo che la riflessione sugli anglicismi sia più utile se rivolta a nuovi concetti oppure a concetti già esistenti ai quali improvvisamente si vuole cambiare nome, meno se invece si tratta di prestiti ormai assestati. Workshop è in uso in italiano dal 1957 (fonte: Devoto-Oli).
    Per non dilungarmi, rimando a L’invasione degli anglicismi per altri dettagli e il mio punto di vista.

    @Marco, grazie per la segnalazione. Gli approfondimenti della Crusca confermano i contenuti del mio post dell’anno precedente, Whistleblower, un concetto poco italiano.

  2. Carla Crivello:

    A proposito di traduzione, ecco che cosa consigliava Carlo E. Gadda nelle sue “Norme per la redazione di un testo radiofonico” (ERI, 1953): “astenersi da parole o da locuzioni straniere quando se ne possa praticare l’equivalente italiano. Usare la voce straniera soltanto ove essa esprima una idea, una gradazione di concetto, non per anco trasferita in italiano. Per tal norma inferiority-complex, nuance, Blitz-Krieg e chaise-longue dovranno essere sostituiti da complesso d’inferiorità, sfumatura, guerra lampo e sedia a sdraio: mentre sefl[self]-made man, Stimmung, Weltanschau[u]ng, romancero, cul-de-lampe e cocktail party potranno essere tollerati”. PS: Non avendo a disposizione il testo originale, ho inserito tra parentesi quadre i probabili refusi della trascrizione.

  3. Isa:

    È certamente troppo lungo e oneroso, ma io ho sempre apprezzato i “ferri del mestiere”, che il traduttore usa nella sua “officina” 🙂

  4. Licia:

    @Carla, molto interessante vedere quali erano gli anglicismi rappresentativi di 60 anni fa, come cul-de-lampe (mai sentito!) e romancero, ma non avrei mai immaginato che inizialmente il calco complesso di inferiorità fosse coesistito con il prestito non adattato. Perplessa invece su chaise-longue = sedia a sdraio, un’equivalenza riportata anche dai dizionari: per me invece sono due mobili parecchio diversi.

    @Isa, penso anch’io che sia stato scelto kit perché parola molto breve e quindi adatta a un titolo. Aggiungo poi che il programma inizialmente era in inglese e questo può aver condizionato la scelta del titolo italiano. A proposito di inglese, per risorse, iniziative ed eventi per traduttori sono ricorrenti i nomi Translator(‘s) Toolbox / Toolkit / Tools.

  5. Massimo S.:

    @ Licia
    Sintesi sintesi sintesi… (ripeto a me stesso…)
    Quanti bei modi di dire italiani scompaiono per la nostra pigrizia o riluttanza a tradurre termini stranieri “lunghi” o “corti” che siano?
    Siamo davvero pronti a ‘venderci’ la lingua per un pugno di sillabe in meno?
    Un vero patto mefistofelico che porta all’inferno dell’impoverimento linguistico…
    (azzardo l’ipotesi che il traduttore, magari giovane, non avesse proprio più contezza dei vari modi di tradurre kit…)
    “Ferri del mestiere” è bellissimo! Ma fino a quando useremo questo modo di dire?
    Sulla scia di Isa io avrei tradotto “gli attrezzi del traduttore”, confortato dal fatto che s’intravede nel manifesto una tipica cassetta porta-attrezzi da manovale o operaio artigiano (e quella cassetta, al momento, pochi la chiamerebbero kit); e proseguendo per questa strada avrei usato il termine “laboratorio” piuttosto che workshop.

    Infine sarebbe interessante leggere qualche volta quei testi italiani in cui termini stranieri compaiono per la prima volta, per farsi un’idea del contesto in cui l’uso del termine è stato inizialmente praticato e paragonarlo a quello attuale.

  6. Massimo S.:

    @ Carla Crivello

    Provo a tirare le somme del discorso che qui si va facendo.

    “Il ‘kit’ del traduttore, ‘workshop’ a Verona” + Carlo Emilio Gadda = “Quer pasticciaccio brutto de Via S. Francesco 22” (*)

    (*)Via S. Francesco 22 è la sede dell’Università degli studi di Verona.

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