Nei giorni scorsi i media hanno dato nuovo spazio al sessismo linguistico, con articoli che si possono riassumere in “solo se si dice sindaca, chirurga, avvocata, ingegnera ecc. si rispettano le donne”.
Le sostenitrici di questa tesi appaiono convinte che per combattere le discriminazioni, purtroppo reali, la soluzione primaria sia imporre desinenze femminili ai nomi di professione finora usati quasi esclusivamente al maschile, e nel frattempo non rinunciano a ridicolizzare le donne che la pensano diversamente (ad esempio Maria Elena Boschi perché preferisce farsi chiamare ministro).
Come già accennato in Genere e linguaggio, le basi teoriche appaiono abbastanza fragili, anche perché non sono avvalorate da dati specifici, ad es. non viene mai indicato quante sono le professioni coinvolte e soprattutto quante delle donne che le esercitano, le dirette interessate, ritengono che il cambiamento possa giovare alla loro causa (o, se sono contrarie, perché).
Professioni importanti davvero solo al maschile?
La Classificazione delle professioni 2011 (Istat) è consultabile anche in formato Excel e quindi i dati sono facilmente verificabili: l’elenco delle professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione mostra che i nomi usati quasi esclusivamente al maschile includono esempi molto citati come ingegnere, architetto, avvocato e magistrato, ma sono comunque in netta minoranza.
Altri due esempi ricorrenti sono chirurgo e medico (usati al posto di chirurga e medica) ma se si analizzano nel contesto delle specializzazioni mediche, si scopre che le forme prevalentemente maschili sono l’eccezione: in un elenco di 109 voci, ne ho contate solo 2, chirurgo e medico legale.
Una tesi ripetuta spesso è che i nomi maschili delle professioni inibiscono le ragazze, che non le prendono in considerazione. È però confutata dai dati Istat delle percentuali di immatricolazione all’università di futuri avvocati, magistrati, medici e architetti. Prevalgono le donne (con percentuali ancora più alte tra chi porta a termine gli studi):
Un problema grammaticale o ideologico?
Credo che gli esempi mostrino che la campagna contro i nomi maschili poteva avere più senso qualche decennio fa, ma ora la sua intensità può sembrare fuori luogo e abbastanza lontana dalla realtà. Appare condotta a tavolino soprattutto da linguiste, giornaliste, filosofe o esperte varie, tutte professioni con forma femminile consolidata, che evitano il coinvolgimento delle dirette interessate che “non vanno assecondate” e sono escluse dalla discussione se contrarie.
Mi pare anche che il dibattito sia troppo connotato ideologicamente e politicamente, come indica una dichiarazione recente di Laura Boldrini: “Non è giusto che donne che svolgono un ruolo non debbano avere un riconoscimento di genere anche nelle parole che le definiscono. È solo perché vengono considerate delle comete, perché il pensiero comune è che adesso occupano posti che sono stati degli uomini, ma passeranno e tutto tornerà come prima. [grassetti miei; fonte]
Temo che in questo modo sia più difficile raccogliere consensi e si distolga l’attenzione da altri aspetti della comunicazione che sono meno palesi ma che condizionano l’identità di genere e rafforzano gli stereotipi in modo molto più subdolo: un esempio in Donne in marina, tra implicito e stereotipi (nuovo; altri esempi nei commenti qui sotto).
.
Nuovo post, giugno 2016: A Roma e Torino, sindaco o sindaca?. Sono stata ospite a Rai Radio1 assieme alla linguista Cecilia Robustelli (punti di vista diversi!), che ha confermato che i nomi di ruolo o professione per ora usati prevalentemente al maschile sono solo una quindicina (quindi non molti di più dei nomi di genere promiscuo come persona, vittima, guida, guardia, matricola, scorta, recluta, sentinella ecc. usati indifferentemente per uomini e per donne).
Nuovo post, 8 marzo 2018: Questioni di genere nel linguaggio amministrativo. Finalmente la discussione “istituzionale” su lingua e discriminazione si allarga anche ad aspetti diversi dai soliti pochi nomi di professione.
Aggiornamenti ad altri post sul sessismo linguistico
In Genere grammaticale, naturale e sociale ho aggiunto un esempio della linguista Cecilia Robustelli che, suo malgrado, conferma che la corrispondenza di genere grammaticale e di genere naturale non è una regola.
In Giudici e giudichesse ho aggiunto un esempio dei diversi contesti d’uso e connotazioni di ministro e ministra (giustificano le preferenze di M. Elena Boschi per il maschile!).
In Genere e linguaggio, altre conferme al mio sondaggio casalingo: tutte le ing., avv, e arch. che ho incontrato finora preferiscono la forma maschile (“Architetta? No grazie!”).
In Il gerundio che non era un participio (giugno 2015) un esempio che mostra come si possa sfruttare a fini politici l’avversione alle iniziative linguistiche come questa: Matteo Salvini se ne è servito per sminuire il concetto di migrante.
Mauro:
Già letto ieri qualcosa al proposito: http://www.butta.org/?p=16128.
Mattia Butta usa toni “un po’” diversi dai tuoi 😉 , ma il concetto è quello.
Saluti,
Mauro.
Marco:
Mah, io da sempre sono per la parità assoluta tra tutti, uomini, donne e qualsiasi altro genere o identità, però non ritengo che dire “l’architetto Gae Aulenti” (invece di “l’architetta Gae Aulenti”) vada a discapito del rispetto delle donne…
Ci sono aspetti molto ma molto più importanti da risolvere prima, ad esempio la diseguaglianza a livello di percentuali rappresentate nelle posizioni dirigenziali e istituzionali e le differenze a livello retributivo, ad esempio.
Licia:
@Mauro, grazie, interessante vedere il punto di vista di un uomo. 😉
Non concordo però sulla cacofonia, un concetto molto soggettivo (vecchio post: Idiosincrasie per le parole), anche perché quando una parola viene usata dalla maggioranza dei parlanti, ci si “fa l’orecchio”. Se le arch. e ing. cominceranno a farsi chiamare architetta e ingegnera, ben venga, ma il cambiamento deve venire da loro, non essere imposto da altri o come esercizio accademico. Più utile riflettere sulle connotazioni delle parole e su come possano influenzare e distorcere la comunicazione, e penso proprio alla scarsa attenzione dei media (esempio: Femmine, signorine e donne).
@Marco, oltretutto viene trasmesso un messaggio davvero semplicistico, come se risolvere diseguaglianze e cambiare atteggiamenti anche molto radicati possa essere una questione soltanto “formale”. Esempio di queste ore: i commenti negativi di Gasparri (vabbè…) sull’aspetto fisico di Angela Merkel.
Un altro aspetto forse trascurato è che i “nomi maschili” vengono usati non solo per identificare le professioni ma anche come forme allocutive. Immaginiamo uno studio con cinque architetti, tre uomini e due donne, e proviamo a pensare quale di queste forme, al momento, sia preferibile per rivolgersi a una delle donne (non solo in studio ma anche in un cantiere):
– Architetto, il progetto…
– Architetta, il progetto…
– Signorina, il progetto… [mentre ai colleghi maschi ci si rivolge sempre con il titolo]
Credo che le uniche risposte che contano dovrebbero essere quelle delle donne che si trovano effettivamente in questo tipo di situazione.
Stefano:
Penso che ci sia una grossa percentuale di percezione personale del problema. Da un lato, c’è il “Perché avvocato? Sono una donna. Esiste la dottoressa e l’infermiera, rispettate una persona che ha lavorato quanto un uomo e forse più per arrivare dov’è e riconoscetemelo chiamandomi avvocatessa”. Dall’altro c’è il “Perché avvocatessa? State sottolineando che io faccio questo mestiere ‘da donna’ e quindi, implicitamente, meno ‘per davvero’ di un uomo? Neanche per idea, ho lavorato come e più di un uomo per arrivare qui, riconoscetemelo chiamandomi avvocato”.
Qual è la verità? Boh… Propenderei per applicare i generi, ma su termini dove la pratica è meno frequente (come appunto avvocatessa, ingegnera, architetta) non riesco a non percepire una forzatura che li connota come “la solita pagliacciata politically correct”. E questo nonostante mi sia reso conto come molte di queste pagliacciate abbiano finito per non esserlo affatto una volta che l’uso si è consolidato. Un’altra idea verso cui propendo è quella di Marco, secondo la quale ci sono lati pratici da affrontare urgentemente che potrebbero agevolmente portarsi a rimorchio l’aspetto linguistico una volta risolti. Ma ho anche visto come l’aspetto linguistico si sia poi portato a rimorchio aspetti pratici molto più di quanto non si sarebbe immaginato, per altre categorie e in circostanze analoghe. Forse, l’importante è che la discussione ci sia, quale che sia la direzione verso cui va.
Andrea:
Ma quindi un commercialista uomo potrà chiedere di essere chiamato “commercialisto”? 😀
Carla Crivello:
E quale soluzione linguistica si potrebbe adottare per il “gender-neutral”? http://en.wikipedia.org/wiki/Gender_neutrality È un tema quasi sconosciuto in Italia, e la notizia che l’Alta Corte australiana abbia riconosciuto – dopo una lunga contesa legale – pochi mesi fa la “gender neutrality” a una persona, non mi pare sia facilmente reperibile sui nostri media.
Licia:
@Stefano, è davvero una questione di percezioni, sarà interessante vedere fra dieci anni, o forse anche solo cinque, che evoluzione ci sarà stata. Mi piacerebbe comunque capire come mai questo argomento sia tornato prepotentemente al centro dell’attenzione solo negli ultimi anni, quando secondo me l’esigenza è meno evidente (le raccomandazioni di Alma Sabatini risalgono al 1987 ma erano presto cadute nel dimenticatoio perché in gran parte difficilmente accettabili; ne avevo accennato in Binomi lessicali e sessismo linguistico).
Credo comunque che i veri problemi di sessismo linguistico siano ben altri. Un esempio visto poco fa su Twitter, descritto giustamente come “uno dei titoli più schifosi della storia del giornalismo italiano”:
@Carla, si potrebbe adottare il finlandese, che non ha nessun tipo di genere. 😉
Battute a parte, anche in questo caso penso che le indicazioni dovrebbero venire dalle persone direttamente interessate.
Mauro:
– Signorina, il progetto… [mentre ai colleghi maschi ci si rivolge sempre con il titolo]
Io sono fisico, quindi con me il problema non si pone… ma ho avuto a che fare con cantieri pieni di ingegneri (uomini e donne)… io sarò un cafone, ma nei confronti di entrambi i sessi ho sempre usato solo il cognome, senza titoli (anche senza signor/signora/signorina) 😉
Suom(I)taly:
@Licia, mi risulta che anche il finlandese abbia qualche problema di genere riguardante i nomi di professioni o ruoli. 🙂
Licia:
@Mauro, ottima soluzione. In ambito informatico/localizzazione: nome, sul modello americano.
@Suom(I)taly, “tutto il mondo è paese”! In inglese invece mi pare si vada in direzione opposta, ad es. non si differenzia più tra actor e actress ma si dice actor per entrambi i sessi.
Stefano:
Beh, pure tu mi spari sulla croce rossa. A livello di linguaggio su argomenti del genere, più beceri del Tempo ci sono praticamente solo Libero, il Giornale e la Padania
Licia:
Con l’avvicinarsi dell’8 marzo si torna a discutere di sessismo linguistico, anche in seguito a una lettera e alcune dichiarazioni di Laura Boldrini:
“Se oggi le donne sono ai vertici delle Istituzioni, delle aziende, rivestono ruoli importanti è perché stato fatto un percorso, quindi bisogna declinare al femminile questi incarichi. Non è vero che è cacofonico, anzi è anche corretto grammaticalmente farlo. Se suona male è perché non siamo abituati, la lingua cambia con la società, la nostra società è cambiata, quindi è giusto che cambi anche il linguaggio, è solo una resistenza culturale, ma noi cerchiamo di aiutare per superarla.”
Anche stavolta la discussione sembra focalizzata esclusivamente sulla morfologia, a scapito di altri tipi ben più diffusi e detestabili di sessismo linguistico, come questo esempio del mese scorso, uno tra i tanti che, a quanto pare, non suscitano mai l’interesse di chi di solito è invece molto attivo sul femminile dei nomi di ruoli e professioni:
Licia:
Purtroppo le donne continuano a essere giudicate solo in base al loro aspetto fisico, come in questo titolo veramente squallido del Resto del Carlino in cui le arciere che hanno partecipato alle olimpiadi di Rio sono descritte come “trio delle cicciottelle”: