un look ancora più fashion

Cartello sulla vetrina di un negozio di Milano temporaneamente chiuso per ristrutturazione:

vetrina Accessorize

5 parole inglesi su 9, mi sembra un bel record!

Ho fatto la foto anche perché è da tempo che ho notato che in italiano i sostantivi inglesi fashion e glamour sono usati come aggettivi. Mi domando se sia un adattamento voluto (eccessiva lunghezza degli aggettivi fashionable e glamorous?) o un’interpretazione errata della sintassi inglese, dove alcuni sostantivi possono fungere da aggettivi con funzione attributiva (ad es. fashion trends) ma non predicativa (even more fashionable e non *even more fashion).

Un’altra differenza tra inglese e italiano riguarda la pronuncia di fashion, che in inglese si dice /ˈfaʃn/ ma che in italiano è diventato /ˈfɛʃʃon/ (“fescion”).

Rimanendo in tema “negozi italiani, parole inglesi”, ecco una vistosa mancanza di h ripetuta su tutte le vetrine di un altro negozio in centro a Milano:

Ceck Out Our Winter Sale

Qui addirittura 12 parole inglesi su 13, una in più se si conta il nome del negozio (sulle cui vetrine, a parte SALDI, non appariva nessun’altra parola italiana):

vetrina


Aggiornamento agosto 2012 – Nell’esempio precedente perlomeno l’informazione sulla percentuale massima di sconto era corretta, altrove invece è indicata con una frase sgrammaticata (risalta in particolare la preposizione until, che indica un’estensione nel tempo):

with discount until 50%

Sempre in centro a Milano, sulle vetrine di un grande negozio in fase di ristrutturazione tutte le scritte erano esclusivamente in inglese e forse proprio pensando ai clienti italiani con un inglese scolastico è stata adottata la scritta next opening, una traduzione letterale ma errata di prossima apertura (è un esempio di inglese farlocco: l’espressione corretta è opening soon):

OVS Next Opening


Vedi anche: altri esempi di itanglese in Una casa shabby al punto giusto…

Nuovo post: Wow, che aggettivo!


18 commenti su “un look ancora più fashion”

  1. Vlad:

    Del resto, visto che fino a prova contraria ‘fashion’ e ‘glamour’ non sono parole italiane, una traslazione di significato e di funzione grammaticale ci sta dentro.
    Non che io voglia discolpare i miei concittadini con la smania dell’itanglese, sia chiaro. Però va detto, scrivere ‘moda’ su una vetrina ormai non è più di moda. Non fa _trend_, non vende.

  2. Licia:

    @Vlad, sarebbe anche poco cool! 😉
    In effetti l’italiano è pieno di pseudoprestiti (“parole appartenenti al lessico italiano che hanno l’aspetto di prestiti, ma che in realtà sono forme ibride perché in quella che si pensa sia la lingua di origine non esistono, oppure hanno un altro significato” – Dizionario di stile e di scrittura).

    @Mara, è proprio quello che mi domando anch’io, quanti di questi esempi di itanglese siano comprensibili al 100% a chi se li trova davanti…

  3. Mara:

    Il ceck è orrorifico. Per quanto riguarda accessorize, ho notato che i negozi di brand stranieri (USA e UK) tendono a usare molto la lingua d’origine, anche in frasi che non sono immediatamente comprensibili all’utente medio italiano.

  4. Licia:

    @rossa, lo penso anch’io. A Milano ho notato varie commesse (o forse adesso si chiamano sales assistant?!?) di madrelingua russa e altre italiane che parlavano inglese davvero bene. Proprio per questo mi stupisce che un errore come ceck non sia stato corretto, anche perché, come dicevo qui, è ormai provato che gli errori di ortografia possono avere un impatto negativo sulle vendite.

  5. Stefano:

    Se consideri che

    1. ho un astio naturale verso il marchetting
    2. ho un astio naturale verso l’itanglish inutile, specie se usato a (obscenicon a manetta)
    3. ho un astio naturale verso il settore moda

    e che questo post è dedicato a una somma delle tre cose, puoi immaginare quanto mi si siano drizzati i peli della schiena!

  6. Licia:

    @Stefano, insomma, sono riuscita a produrre un concentrato di perfidia!?!?! 😉

  7. G.:

    A proposito di inglese e di errori di ortografia, proprio oggi ho ricevuto l’invito a un seminario sulla banda larga dalla camera di commercio della mia provincia che contiene questa frase:
    “L’evoluzione digitale della rete, l’Agenda Digitale Europea, il Claud computing, gli strumenti di marketing digitale, Google e le tecniche per far salire il proprio rank, i social media Facebook e Twetter sono solo alcuni dei temi che verranno trattati nel corso del seminario”.
    Non possono essere errori di battitura perché la A e la O e la E e la I non sono vicine sulla tastiera.

  8. Licia:

    @G. mi auguro che il testo non sia stato scritto da chi terrà il seminario perché ne andrebbe della sua credibilità…

  9. Remo:

    Se ognuno si tenesse la propria lingua sarebbe meglio, il problema è un altro, non si può obbligare per legge ad usare l’italiano nella comunicazione? oppure a una comunicazione multilingue?
    Mi pare incredibile che io italiano non abbia il diritto di capire che cosa c’è scritto in una comunicazione rivolta al pubblica senza dover essere per forza un poliglotta.

  10. Licia:

    @Silvia: tienici informati sui nomi strani (e se hai mai assaggiato il gelato Boccalone Prosciutto!)

    @Remo: non credo che una legge servirebbe, perlomeno non in un paese come l’Italia. Come immagino si capisca da quello che scrivo qui sul blog, sono perplessa dall’uso alquanto disinvolto di anglicismi nel lessico comune per descrivere concetti generici (esempi qui e in itanglese) perché penso che penalizzino la comunicazione. Credo entrino in gioco una certa pigrizia da parte di chi comunica e, in generale, forse anche una scarsa sensibilità per le capacità espressive della propria lingua.

    Sono invece convinta che in molti linguaggi speciali (linguaggi tecnico-scientifici e settoriali) ci siano casi in cui i prestiti siano la scelta più efficace grazie al valore monosemico, alla concisione e alla riconoscibilità “globale” del termine (la cosiddetta mutua intelligibilità: in questo senso l’inglese ha il ruolo che aveva una volta il latino). Non sono quindi d’accordo con l’atteggiamento purista che vorrebbe che anche i forestierismi arrivati dal lessico specialistico per descrivere concetti specifici vadano sostituiti comunque da soluzioni alternative “italiane” (ad es. nessun sostantivo che finisce in consonante, etimologia latina ecc.) che però in molti casi risulterebbero troppo generiche, opache, poco precise e soprattutto non condivise, quindi, paradossalmente, in questi contesti potrebbero essere le parole “autoctone” a penalizzare la comunicazione.

  11. rossa:

    Stasera a Striscia la notizia un responsabile di Groupalia ha detto qualcosa del tipo “noi abbiamo a che fare con aziende che finora avevano sempre deliverato regolarmente…”. Volevo prendere nota e riferire parola per parola più nome del responsabile, ma non ce l’ho fatta, accontentiamoci…

  12. Licia:

    @rossa, quando sento qualcuno parlare così (e ce ne sono parecchi, specialmente qui a Milano!), mi chiedo se lo facciano solo con i loro simili e in situazioni “professionali” oppure anche quando vanno a trovare la mamma…

    A questo proposito, ho recuperato «Gli anglicismi? No problem, my dear», un’intervista di un paio di anni fa a Tullio De Mauro. Il linguista conferma come ancora attuale un’osservazione di Luca Serianni, che nel 1987 aveva affermato che alla consistente penetrazione dell’inglese nei settori tecnico-scientifici non corrispondeva un analogo primato nella lingua della conversazione tra persone colte e in quella familiare. Poi, in risposta a un’altra domanda, aggiunge “l’abuso di tecnicismi e parole poco note (esotismi o no) appartiene alle fasce culturalmente basse dei locutori, a quelli che a Napoli chiamiamo mezze calzette”.

  13. Silvia Pareschi:

    Ah, il gelato Boccalone Prosciutto! Mi ero informata, e avevo scoperto che Boccalone è il nome di un negozio che qui a SF vende salumi (“Tasty Salted Pig Parts”). Perciò il gelato era semplicemente un gelato al gusto di prosciutto Boccalone. La scoperta che si trattava semplicemente di marketing, anziché della fantasia del gelataio, mi ha fatto passare la voglia di provarlo.

  14. Licia:

    “Tasty Salted Pig Parts”? I ciccioli!!!
    (e suona anche meglio di Boccalone)

  15. Silvia Pareschi:

    Tutto suona meglio di “Boccalone”! Se almeno sapessero cosa vogliono dire, queste parole… c’è un venditore di paninis, a North Beach (quartiere teoricamente italiano) che si chiama Macellato. Per la serie “nomi che sembrano italiani ma che in Italia non troveresti mai”.

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