Parole e valutazione dell’apprendimento del linguaggio
È di questi giorni la notizia di una ricerca relativa a un test molto semplice, ricavato da un elenco di parole di controllo (cfr. MacArthur-Bates Communicative Development Inventory, CDI), che permette di identificare potenziali problemi di apprendimento del linguaggio nei bambini di età compresa tra i 24 e i 35 mesi e prevedere quindi interventi di logopedia.
Ne parla anche il Corriere della Sera, con una notevole approssimazione. In Quelle 25 parole da sapere a 2 anni si legge, tra le altre cose:
In genere, le parole pronunciate a due anni sono fra 70 e 225, ma venticinque di queste (mamma, papà, ciao, giocattoli, cane, gatto, bambino, latte, succo di frutta, palla, sì, no, naso, occhio, banana, biscotto, macchina, caldo, grazie, bagno, scarpa, cappello, libro, andati, di più) devono comparire per forza nel vocabolario del piccolo, perché sono quelle considerate base e la loro mancata conoscenza potrebbe essere indice di qualche problema di apprendimento assai più grave di un semplice «ritardo linguistico».
Parole inglesi e parole italiane
La giornalista si è limitata a tradurre letteralmente in italiano l’elenco delle parole che dovrebbe conoscere un bambino inglese di due anni (mummy, daddy, hello, dog, cat, baby, milk, juice, ball, yes, no, nose, eye, banana, biscuit, car, hot, thank you, bath, shoe, hat, book, all gone, more, bye bye), senza verificare se l’elenco avesse senso anche per un coetaneo italiano.
Non dovrebbe essere difficile capire che le parole inglesi sono tutte molto brevi e facili da pronunciare (o riconoscibili anche se solo abbozzate) e non necessariamente corrispondono alle parole italiane. In questo senso, ad esempio, l’inglese hat non è paragonabile a cappello (e comunque la parola berretto avrebbe una frequenza maggiore).
È anche più probabile che un bambino italiano impari a dire bimbo, gioco e auto prima di bambino, giocattolo e macchina, come pure succo anziché succo di frutta.
Nel registro della comunicazione con i bambini di due anni, inoltre, all gone non vuole dire andati ma “più” (nel senso che non è rimasto niente) e more non è di più ma equivale ad ancora.
Traduzione e adattamento
Pare che la giornalista non sia arrivata alla conclusione abbastanza ovvia che le prime parole di un bambino cambiano in base a lingua e cultura e quindi l’elenco non può essere banalmente tradotto ma va adattato*, come spiega anche il sito del CDI:
Each new inventory is necessarily an adaptation, not a translation, of the CDIs. Languages and cultures differ substantially in both the form and content of their communication systems, and there is every reason to believe that even in the earliest phases of development differences will be noticeable in gestural communication, vocabulary, and grammar. […] In the domain of vocabulary, it is obvious that there can be major differences in clothing, food, and household items.
Ad esempio, immagino che un bambino italiano impari a dire pasta molto prima di un coetaneo americano e pensando alle prime parole pronunciate dai nostri bambini, vengono subito in mente pappa, nanna e cacca.
Auguriamoci che nessuna mamma italiana particolarmente apprensiva prenda l’articolo del Corriere alla lettera e piuttosto si procuri gli elenchi CDI italiani! [Altri dettagli nei commenti]
* Un tentativo di adattamento c’è stato: non potendo usare ciao sia per hello che per bye bye, la giornalista ha arbitrariamente pensato di aggiungere giocattoli all’elenco…
Mauro:
Il problema è molto semplice: i giornalisti italiani in genere non conosco l’inglese e quei pochi che conoscono la lingua inglese non conoscono la cultura inglese, quindi traducono senza capire.
Saluti,
Mauro.
Silvia Pareschi:
Grazie Licia, molto interessante come al solito. Certo che il bambino di due anni che dice “cappello” poteva magari far suonare un campanellino nella testa della giornalista…
Licia:
@Mauro, ho notato che sul Corriere gli errori più vistosi sono quasi sempre firmati dalle stesse persone della redazione online. Sicuramente non sono l’unica ad essermene accorta e averne parlato, quindi mi domando come mai i diretti interessati non cerchino di fare qualche verifica in più prima di pubblicare…
@Silvia, infatti, e non occorre avere bambini propri!
Mi sembra tanto una mancanza di sensibilità verso la propria lingua, che invece non dovrebbe mancare a chi scrive di mestiere. Ad esempio, chi ha tradotto non ha mai sentito la parola logopedista, che in italiano è molto più frequente di terapista del linguaggio?
Silvia Pareschi:
Oltretutto su questioni delicate come questa. Una mia amica che ha due figlie piccole ha letto l’articolo ed è furibonda.
Licia:
@Silvia, oggi pomeriggio ne ho parlato anch’io con un’amica, mamma di un bambino di 22 mesi: era allibita. Ma almeno è stato divertente far fare al piccolo Daniele l’ignaro consulente :-D.
AlpT:
Concordo in pieno con Mauro, questi “giornalisti” non conoscono la lingua inglese e nel caso specifico lo si evince anche dal profilo di Linkedin di questa sedicente “giornalista”:
«I also work as regular contributor for La Gazzetta dello Sport (the most important sportif newspaper in Europe) and I’m qualified on football (premier league, liga, italian championship and transfert market) and gossip».
.mau.:
come esperto sul campo 🙂 posso dire che i miei neoduemezzenni le parole lunghe le conoscono ma le tagliano. Quindi se sento “pello” so che parlano di un cappello (o chiedono di essere portati sulle spalle a mo’ di cappello), quando mi dicono “pane” e non siamo a tavola mi guardo in giro per verificare se c’è una chiesa che suona le campane – a dire il vero ieri pomeriggio ho clamorosamente sbagliato su Cecilia). L’automobile è effettivamente “macchina”, con tutte le sillabe perché il duo in genere parte dalla sillaba accentata. Il succo di frutta è “succo”, confermo; “more” è “còa” (ancora).
.mau.:
(poi i poveretti sono figli miei, quindi prima dei due anni parlavano di “bico” (ombelico) e “pessi” (capezzoli), mostrati loro tutte le volte che li cambiavo; e abbiamo già “semaforo, taxi, yoyo” nel vocabolario)
Licia:
Ho notato varie ricerche che arrivano su questo post cercando che test fare ai bambini di 2 anni, probabilmente dopo aver letto l’articolo del Corriere, quindi spero possa essere utile riassumere i risultati della ricerca:
La maggior parte dei bambini di due anni ha un vocabolario compreso tra le 75 e le 225 parole, verificabile usando una lista di controllo di 310 parole (ovviamente ci sono anche bambini con un vocabolario più ampio). Una piccola percentuale di bambini, inferiore al 15%, inizia a parlare più tardi dei coetanei e a due anni non usa più di 50 parole, tra le quali ce ne sono 25 che vengono considerate essenziali; la maggior parte di questi bambini sono semplicemente meno precoci degli altri e recuperano in seguito, ma una piccola percentuale invece potrebbe avere problemi e quindi è utile avere un test standardizzato e facile da condurre, come le liste di controllo, per monitorarli e intervenire se necessario.
Un riferimento per l’italiano: Il primo vocabolario del bambino. Guida all’uso del questionario MacArthur per la valutazione della comunicazione e del linguaggio nei primi anni di vita di Maria Cristina Caselli e Paola Casadio.
@.mau. è molto divertente osservare i bambini alle prese con il linguaggio e notare i tratti comuni e le peculiarità di ciascuno, ad es. ieri il mio “consulente” Daniele, quando la mamma gli ha mostrato una banana e gli ha chiesto cosa fosse, ha detto bana e non nana come invece mi sarei aspettata io.
Nel libro più famoso di Steven Pinker, The Language Instinct (interi capitoli reperibili online), c’è un passaggio sulle prime parole prodotte dai bambini e sulle loro preferenze:
Shortly before their first birthday, babies begin to understand words, and around that birthday, they start to produce them. Words are usually produced in isolation; this one-word stage can last from two months to a year. For over a century, and all over the globe, scientists have kept diaries of their infants’ first words, and the lists are almost identical. About half the words are for objects: food (juice, cookie), body parts (eye, nose), clothing (diaper, sock), vehicles (car, boat), toys (doll, block), household items (bottle, light), animals (dog, kitty), and people (dada, baby). (My nephew Eric’s first word was Batman.) There are words for actions, motions, and routines, like up, off, open, peekaboo, eat, and go, and modifiers, like hot, allgone, more, dirty, and cold. Finally, there are routines used in social interaction, like yes, no, want, bye-bye, and hi—a few of which, like look at that and what is that, are words in the sense of listemes (memorized chunks), but not, at least for the adult, words in the sense of morphological products and syntactic atoms. Children differ in how much they name objects or engage in social interaction using memorized routines. Psychologists have spent a lot of time speculating about the causes of those differences (sex, age, birth order, and socioeconomic status have all been examined), but the most plausible to my mind is that babies are people, only smaller. Some are interested in objects, others like to shmooze.
Nautilus:
Una mancata contestualizzazione è quasi sempre causa di errori.
All’inizio del 2003 mi trovavo a Helsinki; all’epoca ero fidanzato con una ragazza estone, ma per svariate ragioni entrambi passavamo molto tempo in Finlandia. Un pomeriggio si era deciso di fare una capatina a Vantaa – sì, proprio dove vive Suom(I)taly; a Vantaa vivevano (e ancora oggi vivono) due amiche di Milano; una delle due aveva una bambina piccola e inevitabilmente la discussione si era spostata quasi subito sulle diverse modalità educative tra i due Paesi. Mi diceva Marina: “non è facile con la lingua, io cerco di insegnarle [è una femminuccia] quante più parole mi è possibile, ma alla fine prevalgono quasi sempre gli equivalenti finlandesi; e d’altra parte la capisco: imparare ‘albero’ è molto meno semplice che memorizzare ‘puu’; io dico fiore, ma per lei è più naturale ‘kukka’; e così via…”.
Sarebbe interessante capire se esistono ricerche analoghe relative ai figli delle coppie miste. Al momento mia figlia ha solo quaranta giorni, e mia moglie e io ci siamo organizzati (e ci stiamo impegnando assiduamente) per fare in modo che ognuno di noi sia responsabile di una sola lingua (mia moglie è lituana). A quaranta giorni un bambino non è ancora in grado di parlare, ma c’è la comprensibile curiosità di vedere se riusciremo a trasmettere a nostra figlia un perfetto bilinguismo (il prevalere della lingua con i termini più semplici in questa fase iniziale è infatti cosa tutt’altro che trascurabile).
Licia:
@Nautilus, innanzitutto un caloroso benvenuta a tua figlia!
Quello del bilinguismo è un argomento molto interessante, mi è capitato di leggere parecchi articoli ma più che altro per curiosità (non ho conoscenze specifiche in materia). Conosco molte coppie miste e tutti raccontano che i bambini, pur capendo entrambe le lingue, inizialmente scelgono di usare la parola più facile in ciascuna lingua, ad es. la figlia di un’italiana e di un norvegese che vivono in Italia non diceva gelato ma is.
Credo che la cosa più importante sia che ciascun genitore parli sempre la stessa lingua quando si rivolge al bambino, senza eccezioni, anche quando le regole di buona educazione (ad es. presenza di ospiti che non capiscono la lingua) imporrebbe il contrario: l’idea è che in questo modo il bambino pensi che nella comunicazione specifica bambino-mamma (o bambino-papà) non cia sia altra modalità se non in quella specifica lingua. Questo perlomeno in teoria, poi ovviamente ogni situazione e ogni bambino sono diversi, però se mi baso sull’esperienza dei vari amici, riuscire a usare sempre e solo una lingua ha dato risultati migliori.